La maggior parte dei suoi versi vennero scritti quando Konstantinos Kavafis (1863-1933) aveva già toccato i quarant’anni.
Ad Alessandria d’Egitto, in una stanza poco illuminata, l’uomo riservato e il poeta acutamente malinconico sondavano caparbiamente l’oblio. Solcavano insieme la notte alla ricerca di un istante fermo di luce. Di un frammento di verità che potesse venire salvato dal silenzio del tempo. Una ripetizione di un momento interamente passato e vissuto che si eternava ora nel verso. Nell’epigramma funebre. Nella poesia prosastica ma viva di una singolare musicalità.
Kavafis, benché molti lo contestassero, amava dividere la sua opera poetica in tre filoni: le poesie storiche, quelle filosofiche e infine i versi erotici.
Quest’anno Graphe.it edizioni pubblica Non sono morti gli dèi, raccolta tradotta e curata da Aldo Setaioli, professore emerito di Lingua e Letteratura Latina presso l’università di Perugia, che mette proprio l’accento sull’eredità ellenistica. Su quel senso vivo e partecipato che il poeta ebbe sempre della Storia. Dei suoi personaggi più o meno illustri di cui ogni volta sapeva sottilmente catturare l’essenza umana. La cifra spirituale. Un argomento di indubitabile fascino che oggi abbiamo l’opportunità di approfondire grazie ad Aldo Setaioli.
Aldo Setaioli e Konstantinos Kavafis: intervista
La traduzione di un’opera poetica implica – forse più che altrove – scelte particolarmente laboriose e difficili. Mille problemi e trabocchetti si presentano alla mente del traduttore chiamato a un confronto serratissimo con il verso. La sua metrica. Il suo significato. Qual è, dunque, il suo metodo di lavoro? Il suo personale approccio alla traduzione poetica?
A mio parere il punto di partenza per ogni accettabile traduzione poetica consiste nello sforzo di perseguire l'empatia con l'autore. Nel caso specifico di Kavafis e in particolare delle sue poesie legate alla tradizione greco-ellenistica, si trattava di porsi da un punto di vista simile al suo. Egli si sentiva un greco trapiantato in un paese di tradizioni diverse, nel quale, ciononostante, l'ellenismo aveva messo profonde radici, declinanti ma ancora avvertibili al suo tempo, dopo tanti secoli. Traducendo la sua poesia mi sono messo dal punto di vista di chi come lui, si considerava erede di quella civiltà, in quanto io stesso erede di una cultura diversa sì, ma affine alla greca e da questa profondamente influenzata. Ho cercato di rendere vivo e attuale l'incontro della cultura greco-romana con quella che, pur con tutti i mutamenti intervenuti, ha dato origine alla nostra, anche attraverso la contrastata mediazione del cristianesimo, che ha larga parte in queste poesie di Kavafis.
Dal lato formale mi ha aiutato la varietà metrica ed espressiva di Kavafis. Ho conservato i metri più semplici e regolari, come l'endecasillabo, che anche presso di noi ha una lunga tradizione. Per non cadere in inevitabili goffaggini e infedeltà ho rinunciato alle rime, che del resto Kavafis non usa sistematicamente e, quando lo fa, con schemi non di rado molto elaborati e irregolari, che ho sempre segnalato in nota. Non ho però rinunciato a fornire al lettore italiano un'idea di questo gioco letterario a volte impiegato da Kavafis conservandole fedelmente in una poesia abbastanza lunga, in cui lo schema delle rime è particolarmente elaborato e complesso. Dove i versi erano di lunghezza diversa ho seguito il modello; e ho cercato di usare una lingua non lontana dall'uso comune, ma senza rinunciare a una certa dignità stilistica ed espressiva, che a suo modo rendesse giustizia al personale e non riproducibile impasto linguistico dell'originale, dove si amalgamano dimotikì, kathareuousa e molti elementi di greco classico.
Spero in questo modo di non essermi troppo allontanato dall'empatia col poeta, di cui parlavo all'inizio.
Tra i tanti poeti e filosofi dell’antichità da lei studiati quale sente oggi più vicino? Quale più lontano?
A mio modo di vedere non è possibile isolare due singoli autori tra cui stabilire una dicotomia fondata sull'affinità o la lontananza personale. Ciascuno di noi ha i suoi autori preferiti, antichi e moderni, ma per studiarli seriamente occorre porli in una prospettiva storica e culturale, che è il punto di partenza obbligato per una seria analisi. Ad alcuni autori che, attraverso i secoli, parlano direttamente a me come a qualsiasi lettore, come Lucrezio o Catullo, ho dedicato solo qualche saggio. Ho invece studiato a fondo Virgilio (e i suoi commentatori): egli ha creato un paesaggio dell'anima nelle Bucoliche, ha cantato lo stretto rapporto tra uomo e natura nelle Georgiche, e nell'Eneide, oltre e più che celebrare l'Impero di Roma, ha rivelato l'elemento che affratella tutti gli uomini, amici e nemici: il comune dolore. Un altro autore cui ho dedicato anni di approfondita ricerca, e che è diventato quasi un familiare, è Seneca. Molti filosofi sono più profondi di lui, ma solo in Seneca si incontrano, quasi a sorpresa, pensieri che il lettore credeva appartenere soltanto alla propria sfera più intima, cui Seneca dà espressione con parole che sembrano nostre. Un altro autore che ho studiato con entusiasmo è Petronio, il cui romanzo, i Satyrica, sembra contemporaneo, anzi scritto domani.
Un autore cui ho dedicato vari studi, di cui riconosco l'assoluta grandezza, ma che spesso (non sempre) sento lontano dalla mia sensibilità è Cicerone. Sia chiaro che con questo non intendo in alcun modo diminuire la sua fondamentale centralità.
Tra i Greci sono innumerevoli gli autori che sento vicini. Mi limito a citare Omero, che ai primordi della nostra civiltà ha saputo dare espressione a sentimenti umani senza tempo.
Cosa può rappresentare, secondo lei, la classicità nella società di oggi? Quale ruolo può avere soprattutto nell’educazione delle nuove generazioni così apparentemente lontane da essa? Versi come quelli di Kavafis pensa abbiano un vero e meditato ascolto? Una eternità che non può non toccare il cuore?
A mio parere sarebbe necessario spogliare gli autori antichi dell'appellativo di “classici” e accostarsi a essi per cogliere in essi, sia pure attraverso il necessario filtro di una seria collocazione storica che eviti ogni superficiale impressionismo, quanto hanno da dirci di “eterno”, nel senso che non ha mai perduto verità e validità. Nessuno, e in particolare nessun giovane, credo possa rimanere indifferente davanti all'odi et amo di Catullo. Kavafis, vissuto in epoca tanto più vicina a noi, è lui stesso un perfetto esempio di questa vicinanza a un'antichità intimamente rivissuta. La sua Itaca non può non invogliare a riprendere in mano l'Odissea. Allo stesso tempo Kavafis può costituire uno sprone a ricercare e meglio comprendere tanti capolavori della letteratura moderna, di tutti i popoli dell'Europa e non solo. Un bravo insegnante deve saper indicare l'ininterrotta continuità di questa linea, indicandola ai giovani in ogni ambito culturale di oggi, cinema incluso. Restando all'Odissea, deve far loro conoscere il bel film dei fratelli Cohen, Brother, where art thou? (Fratello, dove sei?) dove George Clooney recita la parte di un moderno Ulisse.
Invecchiare: «crescere solo nelle radici, non più nei rami». Sprofondare nelle radici, senza più fiori né foglie. O, piuttosto, come una farfalla ebbra svolare su ciò che è stato vissuto. Ci sono ancora rami e fiori nel passato. E se ne può fare ancora miele. Così Giorgio Agamben in Quando la casa brucia. E Aldo Setaioli?
Ho avuto la fortuna di essere allo stesso tempo un ricercatore e un insegnante. Mentre le mie radici crescevano i miei rami recavano frutti, il cui valore non sta a me giudicare, in forma non di opere artistiche, ma di saggi che cercavano di mettere in nuova luce, col massimo rigore scientifico di cui ero capace, nuovi lati e aspetti di opere letterarie e fenomeni culturali. Parallelamente i risultati raggiunti mi spronavano a comunicarli ai tanti studenti che mi hanno seguito, con molti dei quali sono ancora in contatto. Ho continuato l'attività scientifica per molti anni dopo il mio pensionamento. Oggi mi sono rivolto anche ad altri interessi, che ho sempre coltivato, ma che la preminente attività filologica mi ha impedito di coltivare adeguatamente: le letterature orientali, la storia dell'arte, Shakespeare: campi trattati in alcuni dei miei ultimi lavori. Come diceva Solone, γηράσκω δ’αἰεὶ πολλὰ διδασκόμενος (“invecchio imparando ogni giorno molte cose”). Un ultimo “fiore”, per conservare l'immagine di Agamben, appartiene sì al passato, ma è rivolto ancora al futuro. Si tratta della mia attività di traduttore, resa possibile dalle lingue che ho appreso nel passato, in gran parte in relazione alla mia attività scientifica, ma che si rivolge a opere mai prima tradotte in italiano, allo scopo di renderle da ora in poi accessibili ai lettori di casa nostra. Kavafis è l'unica eccezione, ma nuova è la presentazione, che sottolinea l'eredità dell'ellenismo. Per Graphe.it ho tradotto in endecasillabi italiani gli impeccabili esametri latini di Ad scriptores Latinos e dei Sermones di Michel von Albrecht, e anche i Miti e leggende dei Ch'uan Miao (che usciranno più in là). Per Marietti 1820 Brautproben di Friedrich Laun (Friedrich Augist Schulze) [“Fidanzate alla prova”]; per la Lorenzo de' Medici Press The History of the Nun di Aphra Behn [“La Monaca”], e prossimamente usciranno i Diari di Novalis: tutte opere mai prima tradotte nella nostra lingua.
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