In un'epoca dominata dalla complessità e dal disorientamento, Fabio Millevoi propone una via diversa per navigare l'incertezza del presente. Non attraverso l'ennesimo saggio teorico, ma con un invito concreto all'azione. Il filo a piombo del XXI secolo è molto più di un libro: è una cassetta degli attrezzi per chi vuole smettere di lamentarsi e iniziare a costruire.
Direttore di ANCE Friuli Venezia Giulia e futurista per necessità, Millevoi ha costruito un alfabeto contemporaneo attorno alla parola COSTRUIRE, dove dieci valori-chiave si intrecciano per formare un filo conduttore nel caos del nostro tempo. Dal cantiere alla visione sistemica, dall'intelligenza emotiva alla complicità come "malta relazionale", questo libro sfida la cultura del lamento e propone un cambiamento che parte dal quotidiano.
Con un linguaggio diretto e una buona dose di ironia, l'autore ci accompagna in un viaggio che non promette salvezza, ma qualcosa di più prezioso: la consapevolezza che il futuro si scrive nelle scelte di ogni giorno, anche quelle più piccole. Perché, come ci ricorda Millevoi, nessuno verrà a salvarci – ma possiamo iniziare a costruire insieme.
L'intervista
Maria Chiara Voci, nella sua prefazione, parla di una “rivoluzione nella filiera delle costruzioni” che nasce da un cambiamento culturale e quotidiano. Ci puoi spiegare meglio cosa intendi? E qual è il ruolo del “filo a piombo” in questo cambiamento?
La rivoluzione culturale non è una dichiarazione d’intenti, ma un gesto quotidiano. Non parte dai convegni, parte dai cantieri. Non riguarda solo tecnologie o bonus, ma un modo diverso di guardare al mondo.
Oggi viviamo in un tempo che ci spinge ovunque e da nessuna parte, che ci sfilaccia. Il filo a piombo è una provocazione. Non è un oggetto antico da rimpiangere, ma un simbolo attualissimo. Rappresenta l’esigenza di verticalità in un’epoca che ci rende orizzontali: sempre connessi, sempre attivi, ma spesso disorientati. Serve qualcosa che ci tenga saldi mentre costruiamo. Qualcosa che ci aiuti a connettere visione e responsabilità. Quel qualcosa, nel libro, è il filo a piombo.
Nel cuore del libro c’è un “alfabeto contemporaneo” di dieci parole-valori che formano l’acrostico C.O.S.T.R.U.I.R.E. La Complicità tiene tutto insieme, come fosse una linfa vitale. Perché è così importante? Come si intrecciano queste parole nel tuo filo a piombo? E perché proprio la Complicità è così importante, al punto da definirla «la malta» che unisce tutto?
L’acrostico è nato come un gesto creativo, ma si è rivelato un architrave. Ognuna delle dieci parole - da Consapevolezza a Empatia - è una fibra. Insieme formano un tessuto, ma senza la Complicità restano solo fili sparsi. È la “malta relazionale”, ciò che permette alle altre fibre di unirsi in una struttura coerente. Non è obbedienza né accordo passivo, ma un’intesa che prende forma nel fare. È un’alleanza che si mette alla prova quando si agisce, non quando si parla. È quella forza invisibile che permette alle idee di camminare e ai gruppi di creare qualcosa di più grande della somma delle singole parti. In un’epoca di solitudini organizzate, la complicità è un atto fondativo, non un compromesso. E per questo, necessaria.
Nel libro identifichi la “cultura del lamento” come uno dei mali del nostro tempo, definendola addirittura il «Lucifero contemporaneo». Come possiamo trasformare il lamento in azione e responsabilità, nella vita quotidiana e nel lavoro?
Il lamento è diventato quasi una forma di intrattenimento sociale. Una lingua comune: ci unisce, ma ci blocca. È una zona di comfort travestita da indignazione. Eppure, ogni lamento contiene una domanda nascosta, una tensione. Se accolta, può diventare una scintilla. Non si tratta di silenziarlo a forza, ma di chiederci: “Che cosa posso fare, ora?” Lamentarsi è umano. Agire è trasformativo. Jung diceva: “Ciò che neghi ti sottomette, ciò che accetti ti trasforma.” L’opposto del lamento non è il silenzio: è il primo gesto. Anche piccolo. Anche imperfetto che rompe, però, l’inerzia, che cambia la traiettoria.
Il tuo libro precedente, Breve storia sui futuri della casa, esploravi i cambiamenti nell’abitare. In che modo questo nuovo libro ne è una continuazione? E quali competenze ci servono oggi per costruire e abitare il futuro?
In Breve storia sui futuri della casa raccontavo delle possibili case in risposta alle trasformazioni sociali e culturali in atto. Qui faccio un passo avanti: non guardo più solo all’abitare, ma al cantiere più ampio del nostro presente. Il filo a piombo del XXI secolo è una cassetta degli attrezzi per orientarsi nel caos. Non ci salveranno solo le competenze tecniche. Servono capacità immaginative, visione sistemica e sensibilità per cogliere i segnali deboli, leve che possono fare davvero la differenza. E soprattutto, serve uno sguardo nuovo. Uno sguardo che non si limiti a produrre, ma che sappia costruire con senso.
Viviamo in un’epoca dominata dagli algoritmi, ma tu dici che le vere superstar sono intelligenza emotiva, empatia e ascolto. Usi la metafora dell’arco e della corda per parlare di equilibrio tra tecnologia e umanità. Puoi spiegarci meglio come questa “tensione” può diventare una forza creativa per affrontare le sfide del settore?
Immagino l’essere umano come un arco e la tecnologia come la corda: da soli sono immobili, ma insieme possono tendere una freccia verso l’ignoto. È in quella tensione che nasce il possibile. Restare umani non è un atto nostalgico, è una scelta strategica. L’IA calcola, ma noi possiamo sognare strade nuove. Nel libro chiamo in causa non un rifiuto della tecnologia, ma una convivenza creativa. Quello che serve, oggi, è una “complicità” tra ciò che ci rende precisi e ciò che ci rende vivi.
Il libro si chiude con un invito all’azione e un gioco, Filo2035. Qual è il messaggio più importante che vuoi lasciare? E cosa può imparare chi lavora nel settore?
Il messaggio è semplice, ma scomodo: nessuno verrà a salvarci.
Chi costruisce – case, città, progetti, relazioni – ha il dovere di non aspettare, ma di cominciare. Non servono supereroi, serve presenza. Guardarsi dentro è il primo gesto di ogni cambiamento solido. Non è un lusso da artisti, è un’urgenza da professionisti. Come scriveva Sant’Agostino: “Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’interiorità dell’uomo abita la verità.” Una verità che non è teorica, ma pratica. Vive nelle scelte quotidiane: in come gestisci un cantiere, ascolti una collega, decidi dove mettere energia. Nel coraggio di fermarti a chiedere: “Quello che faccio è allineato con ciò che conta davvero?” Il filo a piombo ti aiuta proprio in questo: è una metafora, ma anche uno strumento. Le sue dieci fibre non offrono risposte preconfezionate: ti aiutano a mantenere la rotta quando tutto trema, a ritrovare lucidità quando il mondo ti disperde. Il gioco Filo2035 nasce da questa stessa visione. È un invito a praticare il futuro, non a prevederlo. I suoi “What If?” – domande provocatorie come “E se le città avessero una scadenza?” – spingono fuori dal conosciuto e costringono ad allenare visione sistemica, senso di responsabilità e capacità di collaborazione attiva. È un esercizio, non un passatempo. Un modo per far parlare i valori, per scoprire chi sei davvero quando il terreno si fa incerto. In un tempo che ci divide in mille direzioni, che ci sfilaccia, costruire insieme non è solo una speranza. È un’urgenza. Una scelta. Una prova di maturità.
E forse, anche la più bella.
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