Solitudine, amore deluso, erotismo sterile, giovinezza evocata e sempre rimpianta, memoria: unico appiglio per la felicità vissuta e ormai fuggita. Sono struggenti e universali i temi della poesia di Kavafis, poeta greco contemporaneo che in Grecia studiano a scuola, mentre qui da noi è sconosciuto ai più. A noi no, però, visto che pubblichiamo un'antologia con le sue poesie curata da Aldo Setaioli.
Abbiamo già parlato della sua complicata “doppia” vita, mentre oggi raccontiamo, se possibile, le sue poesie, che poi è il modo migliore se non l’unico di conoscere veramente un poeta.
5 splendide poesie di Kavafis
Ne ho scelte cinque tra le più rappresentative e le più condivisibili, o forse semplicemente le cinque che mi piacciono di più. Spero piacciano anche a voi.
Itaca
“Quando ti metterai in viaggio per Itaca / prega che il cammino sia lungo, / pieno di peripezie, pieno di conoscenze […] / Prega che sia lungo il cammino. / Che ci siano molte mattine d’estate, / nelle quali – con che gratitudine, con che gioia – / entrerai in porti mai visti prima […] / Ma non forzare in nulla il viaggio. / Meglio è che duri molti anni / e che infine da vecchio approdi nell’isola, / ricco di ciò che hai acquistato nel viaggio, / senza attenderti che Itaca ti dia ricchezze. / Itaca ti ha dato il bel viaggio. / Senza di lei non ti saresti mai messo in cammino. / Ma non ha più nulla da darti”.
Partiamo subito bene. Mamma mia quante cose ci sono in questi pochi versi. Naturalmente c’è un richiamo alle radici dell’epica greca e come potrebbe essere diversamente? Ma qui a Ulisse viene fatta una raccomandazione ben precisa: non ti affrettare a tornare, goditi il viaggio, perché la bellezza è nel viaggio in sé, non nella sua meta. Senza nulla togliere a Penelope, siamo abbastanza d’accordo: approfittare del viaggio della vita per conoscere, sperimentare, esplorare e crescere, apprendere il più possibile. In una parola: studiare. E una volta studiato, anche se Itaca, casa, la vita stessa ci deluderà perché non ci avrà dato quanto auspicato, andrà bene lo stesso, perché ci resteranno le esperienze vissute e le conoscenze apprese.
Aspettando i barbari
“Perché aspettiamo riuniti nell’agorà? / È che oggi arriveranno i barbari. […] / Perché oggi arriveranno i barbari. / Perché i Senatori dovrebbero più promulgare leggi? / Quando verranno, le leggi le faranno i barbari. / […] si è fatta notte e i barbari non sono venuti. / E della gente è arrivata dal confine / e ha detto che non ci sono più barbari. / E adesso che sarà di noi senza barbari? / Costoro in qualche modo erano una soluzione”.
Sembra quasi di vederla quella piazza gremita di personalità importanti vestite di tutto punto in attenta allerta durante il giorno, svuotarsi poi, delusa, di notte, per quel che non è stato e che poteva essere. Questa poesia bellissima e densa di significati mi ha ricordato il teatro dell’assurdo dell’Aspettando Godot di Beckett, ma anche le atmosfere prima brulicanti e via via più rarefatte di Il deserto dei Tartari di Buzzati. L’attesa disattesa non è solo un tema caro al poeta, ma una realtà della vita, una croce che ogni essere umano deve portare e che, dopo essersi scossi la polvere della delusione dalle mani, fa restare in tasca i rimpianti e i rimorsi di cui si nutrono le nostre esistenze. Ricorda un po’ anche certe promesse elettorali: tutti andiamo a votare il giorno delle elezioni, ci vestiamo bene per questo rito collettivo che è la base della nostra democrazia (invenzione greca: sarà un caso?), ma quell’entusiasmo si dissolve presto, come i governi eletti che ormai raramente giungono alla fine della legislatura.
Per quanto sta in te
“E se non puoi la vita che desideri/ cerca almeno questo/ per quanto sta in te: non sciuparla/ nel troppo commercio con la gente/ con troppe parole in un viavai frenetico. Non sciuparla portandola in giro/ in balìa del quotidiano/ gioco balordo degli incontri/ e degli inviti, fino a farne una stucchevole estranea”.
Cos’altro aggiungere? Appena l’ho letta mi si sono rincorsi lungo la schiena brividi grossi come criceti e lacrime pungenti come spilli mi si sono rovesciate dagli occhi. I poeti parlano a ognuno di noi e di ognuno di noi, altrimenti non sarebbero poeti, farebbero altro. Ognuno, poi, resiste come può. Ma l’invito a non fare della propria vita una stucchevole estranea, in definitiva a non tradire se stessi, dovrebbe essere scolpito nella pietra.
Sulle scale
“Eppure l’amore che volevi io l’avevo da darti/, l’amore che volevo – me l’hanno detto i tuoi occhi/ stanchi e ambigui – tu l’avevi da darmi. I nostri corpi si avvertirono e si cercarono, il sangue e la pelle intuirono. Ma noi, turbati, ci eclissammo”.
Ed ecco che torna il tema dell’amore deluso, un amore omosessuale nel caso di Kavafis, e perciò ancora più sofferto, soffocato e perciò, infine, rimpianto. Nei suoi versi, però, sempre il tema dell’amore si interseca con quello della giovinezza perduta e inutilmente evocata come unico vero mezzo per raggiungere la felicità.
Candele
“Stanno i giorni futuri innanzi a noi/ come una fila di candele accese/ dorate, calde e vivide. Restano indietro i giorni del passato, penosa riga di candele spente: le più vicine danno fumo ancora, fredde, disfatte e storte…”.
Non trovate che sia un’immagine meravigliosa, potente e al tempo stesso drammatica? Vi siete chiesti, infatti, quale sentimento provereste il giorno in cui vi accorgereste che le candele spente, senza neppur un fil di fumo che si leva – per dirla alla Madame Butterfly – sono molte di più di quelle ancora accese? E non c’è finestra che possiate chiudere, spiffero che sia possibile tappare: quelle candele, inesorabili e ineluttabili, si spegneranno comunque, una dopo l’altra, giorno dopo giorno. Fino all’ultimo. Che angoscia. Ma il poeta, poiché è tale, va oltre e si domanda come si possa continuare a vivere senza la luce della giovinezza, come si possa sopportare una vita che è solo desiderio e nostalgia di quell’istante privilegiato e irripetibile ormai sfuggito. La risposta del poeta è la seguente: si può vivere aggrappandosi al ricordo. La vostra risposta qual è? Pensateci.
La traduzione di Itaca e Aspettando i barbari è di Aldo Setaioli; le altre sono tratte da Poesie, a cura di Filippo Maria Pontani, Mondadori, Milano 1961.
Foto | elaborazione grafica di Eugenia Paffile a partire da una foto di Kavafis.
Inserisci un commento