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Storie di serial killer: intervista a Lidia Fogarolo

Storie di serial killer: intervista a Lidia Fogarolo Storie di serial killer: intervista a Lidia Fogarolo
Storie di serial killer: intervista a Lidia Fogarolo

Lidia Fogarolo, laureata in psicologia e specializzata in grafologia, è analista e perita grafologa, consulente tecnico di tribunale nei procedimenti di verificazione di scritture, docente di grafologia applicata alle dinamiche interpersonali. La scrittura è dunque il suo mestiere, ma lo è anche in qualità di autrice: l’ultimo suo libro con la Graphe.it Edizioni, è il saggio Storie di serial killer. Nella mente degli assassini seriali attraverso l’analisi della scrittura.

Un tema che intriga e spaventa, un modo differente di analizzare la personalità di assassini seriali passati alla storia per via delle loro terribili azioni. «Considero questo mio saggio un contributo allo studio dell’Ombra dell’essere umano», scrive l’autrice nella presentazione del testo, ed è con lei che desideriamo approfondirne i contenuti.

Lidia Fogarolo, in questo ultimo saggio evidenzia una verità che sconcerta e fa paura, ovvero che oggi – grazie a studi approfonditi sulla materia – accade che parti d’Ombra vengano riconosciute in persone definite normali. Inquietante e soprattutto difficile da accettare. Nel suo accurato lavoro di ricerca, che cosa ha provato quando ha compreso fino in fondo questa realtà, ovvero che nascondere ai più la propria «follia» non è impossibile?
Credo che sia necessario fare una premessa di natura psicologica, altrimenti si corre il rischio di non capire che si tratta dell’esagerazione di un meccanismo psichico comunemente utilizzato, collegato alla rimozione. Ognuno di noi è capace di cancellare quelle parti di sé cui sente di non riuscire a stare di fronte, che giudichiamo sbagliate, malate, pericolose per la nostra sanità mentale.
La scoperta della rimozione come meccanismo difensivo comunemente utilizzato risale a Freud, eppure non è ancora entrata nel sapere comune: la maggior parte delle persone crede di avere una struttura psichica unitaria, priva di parti in ombra. E per «ombra» qui si intende qualcosa di molto preciso: un nucleo motivazionale attivo, ma privo di accesso alla consapevolezza. Tuttavia queste parti, per il semplice fatto di essere uscite dalla consapevolezza, non sono neutre, ma sono dotate di contenuti psichici emotivamente molto attivi, che ruotano intorno all’attaccamento, al risentimento, al desiderio di vendetta, creando un groviglio di sentimenti anche altamente contraddittori che l’Io tenta di escludere o di cancellare perché ne riconosce la pericolosità.
Pertanto, alcune zone d’Ombra fanno parte del normale funzionamento della psiche di tutti noi. Il problema è che gli esseri umani tendono a negare questa realtà, a ignorarla, identificandosi totalmente con la parte consapevole, che di solito è quella orientata al bene, che aderisce alle norme sociali costituite.
A questo proposito vi è anche una notevole differenza di genere: gli uomini tendono maggiormente a identificarsi con una visione totalmente unitaria di loro stessi, per cui il processo di rimozione di tutto ciò che non appartiene a questo nucleo forte è più energico. Le donne, invece, sono maggiormente consapevoli della presenza di più voci al loro interno, anche se non vivono questa esperienza come ricchezza ma come qualcosa che le fa dubitare della loro sanità mentale.
Per quanto riguarda la capacità di nascondere ai più quella che lei chiama «la propria follia», alcuni individui hanno veramente una straordinaria capacità di scindersi in due personaggi completamente diversi: un profilo esibito di assoluta normalità e un’altra struttura di personalità, pure altamente organizzata, che agisce valori opposti. Tra questi rientrano numerosi serial killer (non tutti) ed è così che riescono a sfuggire alla cattura a lungo. Ad esempio, tra le storie narrate, c’è quella di un ingegnere caratterizzato da un così basso profilo da passare del tutto inosservato per anni: di giorno scrupoloso lavoratore, di notte – quando litigava con il suo compagno – sfogava la sua rabbia furibonda arrivando a uccidere trentadue persone, in singoli eventi separati. Quindi esisteva al suo interno un nucleo motivazionale attivo, costante, ben organizzato, in grado di scalzare totalmente la personalità ordinaria esibita durante il giorno.

Perché per la parola «Ombra» utilizza il maiuscolo?
Il concetto di Ombra è uno dei contributi più interessanti offerti da C. G. Jung, che io considero il geniale continuatore delle brillanti intuizioni di Freud sulla psicologia del profondo. Possiamo definirla come la risultante di tutte le nostre piccole o grandi rimozioni, conseguenti alle enormi difficoltà che la vita propone a chiunque.
L’interesse di questo concetto è duplice. Innanzitutto l’Ombra è un prodotto psichico altamente individuale, perché ruota intorno alle ferite esperite nel corso della nostra esistenza: non a caso, molte storie di serial killer hanno come protagonisti degli adulti vittime di continue violenze subite da bambini. Storie tremende che portano a epiloghi altrettanto tremendi, rendono ragione del fatto che all’interno di ogni individuo è presente un nucleo emotivo che non dimentica nulla dei soprusi che la personalità ha subito. Tuttavia esiste anche un’Ombra collettiva, fatta di molte rimozioni simili, in quanto come individui sociali respiriamo uno stesso clima e siamo sollecitati a non vedere tutti determinate cose.
Potrei anche dire che l’utilizzo della maiuscola è dovuto al fatto che l’interrogazione proposta non è solo sui serial killer, ma sulla valutazione della responsabilità personale nell’agire il Male. Un’interrogazione religiosa, quasi, giacché – ogni volta che l’umanità cade in baratri di distruzione, siano essi individuali o collettivi – la domanda è sempre la stessa: «Dio dov’è?».

Nei testi esaminati durante la stesura del suo libro, ve n’è qualcuno che l’ha particolarmente affascinata, in bene o in male?
Soprattutto sono rimasta impressionata dal livello di disgregazione sociale che caratterizza la società statunitense: non si tratta solo di povertà materiale (che pure non dovrebbe esserci in quello che è considerato il paese più avanzato del mondo) ma di miseria morale, di solitudine, di annientamento psichico e anche sensoriale. Teniamo presente che si parla di quarantacinque milioni di poveri stimati: un calderone che certamente non può restare inerte.
Come simbolo di questa disgregazione sociale, uno dei più rappresentativi è forse il serial killer che teneva i cadaveri delle sue vittime in soffitta, nella casa in cui viveva con i genitori e la sorella; e nonostante l’odore tremendo che regnava in casa, il fatto è passato inosservato, o non interrogato, per mesi. Oppure il ragazzino di quattordici anni che teneva sotto il letto sette fucili, alcuni dei quali rubati: mai nessun adulto, in quella casa, ha dato un’occhiata, anche solo per spolverarla, a quella cameretta?

Tutte le sue pubblicazioni, vanno verso la medesima direzione, sebbene seguano differenti strade: una più ampia conoscenza dell’animo umano, della nostra essenza, delle complessità e infinite sfumature che la compongono. Per quanto questa domanda possa apparirle banale, vorremmo conoscere meglio la sua inclinazione/passione per la grafologia: che cosa l’ha spinta a studiarla?
La mia passione è sempre stata la psicologia: la trovo una disciplina davvero affascinante, anche se enormemente complessa. In particolare mi affascina lo studio della struttura di personalità, della sua plasticità, della sua capacità di adattarsi a condizioni di vita difficilissime, agendo come un nucleo dinamico altamente creativo.
Mentre frequentavo la facoltà di Psicologia ho conosciuto padre Giovanni Luisetto, allora direttore della Biblioteca Antoniana della Basilica del Santo di Padova, il quale mi ha mostrato le enormi potenzialità del sistema grafologico elaborato da Girolamo Moretti, di cui lui era il più approfondito conoscitore. Io venivo dal mondo dei test e guardavo allibita quest’uomo che, gettando uno sguardo sulla scrittura, vedeva cose inimmaginabili con qualsiasi altro strumento psicodiagnostico. Devo dire che allora sarebbe stato più semplice per me liquidare l’intera faccenda dicendo che si trattava di un sensitivo, o un «paranormale» (qualsiasi cosa vogliamo mettere in questa categoria). Ma io sapevo benissimo che lui aveva imparato questo metodo. Così è nata la sfida: «Voglio anch’io vedere la realtà con questo sguardo». È stato un percorso di studio psicologico lungo, complicato, a volte tremendamente frustante (perché non capivo), ma anche profondamente terapeutico per me, perché ho imparato a riconoscere le enormi differenze che caratterizzano le personalità individuali e a ritirare le mie proiezioni dal mondo.

I segni, secondo lei, possono mentire? Ovvero, ed è una cosa che ci domandiamo in tanti, quanto è esatta questa scienza? E ancora: noi scrivendo con la consapevolezza d’essere poi studiati, possiamo modificare i nostri consueti segni fino a ingannare gli esperti?
Il sistema segnico morettiano si basa sull’analisi di più di settanta segni: ovviamente è impossibile agire consapevolmente sulla maggior parte di essi, modificandoli. Tuttavia, essendo la scrittura un movimento in parte spontaneo ma anche controllabile dalla volontà, è possibile agire intenzionalmente su alcune caratteristiche, modificandole. Ad esempio, è facile variare l’inclinazione (dritta-pendente) o il calibro (entro certi limiti).
In generale, se si tratta di utilizzare la grafologia come test psicodiagnostico, viene sempre precisato che la scrittura deve essere spontanea, e con questo si intende non eccessivamente calligrafica, ma nemmeno appunti presi in condizioni scomode.
Se invece entriamo nel campo peritale, per analizzare i fenomeni di dissimulazione («Sono stato io ma non voglio che si capisca») o di imitazione («Non sono lui, ma voglio far sembrare che io lo sia»), allora i grafologi forensi fanno riferimento a una serie di criteri che consentono di cogliere le differenze tra una scrittura spontanea e una artificiosa.

Per quanto riguarda il saggio sui serial killer c’è bisogno di una competenza specifica sulla materia o può essere letto da un pubblico ampio?
Il libro si presta ampiamente a un pubblico molto eterogeneo per diverse ragioni. L’idea centrale si snoda appunto sulla narrazione di singole storie di vita, scelte in modo da rappresentare la varietà che caratterizza la categoria dei serial killer. Alcuni indubbiamente sono persone apparentemente molto «normali» e questi sono i più difficili da individuare; altri hanno collezionato diagnosi psichiatriche o condanne penali fin da giovani. Ho cercato di mettere in luce il filo che collega la storia personale, la struttura di personalità e le specifiche gesta compiute, mantenendo un linguaggio semplice e facendo leva anche sull’evidenza dei dati disponibili.
A questa parte centrale, che costituiva l’idea del libro, è stata aggiunta un’introduzione in cui ho riassunto quanto emerso in un interessante convegno organizzato dall’FBI nel 2008 sull’argomento. Da qui ho tratto l’inquietante citazione che compare in copertina: «La maggior parte dei serial killer non sono dei disadattati sociali che vivono da soli. Non sono dei mostri e non necessariamente presentano segni di “stranezza”. Molti serial killer si nascondono in piena vista dentro le loro comunità, hanno spesso casa e famiglia, esercitano un’attività professionale e sembrano essere normali membri della loro comunità».
Infine, pur considerata la varietà della categoria, nella terza parte ho tratto una serie di generalizzazioni sulle varie tipologie dei serial killer e delle strutture di personalità prevalenti.
Secondo me, il libro ne è uscito davvero completo, sul piano psicologico e sociologico.

Concludiamo con una domanda «birichina»: quando un’esperta come lei riceve una lettera vergata a mano (sono sempre più rare ma ancora non sono scomparse, per fortuna), ne assapora semplicemente il piacere oppure non resiste alla tentazione di denudare chi l’ha scritta?
Le scritture a mano sono ancora piuttosto diffuse: ad esempio, ancora oggi molti verbali nelle udienze civili vengono scritti a mano dagli avvocati.
Considerato che la scrittura rientra tra i comportamenti espressivi, è impossibile per me non reagire a qualsiasi manifestazione grafica spontanea. È come chiedere a una persona di ascoltare un altro facendo riferimento solo al messaggio verbale, ignorando completamente tutte le informazioni trasmesse tramite la voce, la postura, i gesti, la mimica: tutti fenomeni inconsapevoli da parte di chi li emette, e altamente visibili da parte di chi ascolta, anche se digiuno di psicologia (qui lavorano autonomamente i neuroni specchio).
Per me è la stessa cosa: è impossibile osservare una scrittura e prestare attenzione solo al contenuto, perché il modo in cui è stato scritto mi sta parlando con la stessa intensità. Anzi, in certi casi, con un’evidenza maggiore. Ad esempio, il messaggio verbale «io sono una persona aperta e disponibile» non è compatibile con una scrittura stretta e rovesciata. In questo caso, la realtà è quella che emerge dalla scrittura: uno stato di diffidenza e di contraddizione preventiva, rimosso dall’immagine ideale che questa ipotetica persona ha costruito di sé.

L'autore: Susanna Trossero
Susanna Trossero Susanna Trossero è nata a Cagliari e vive a Roma. Ha fatto della scrittura la sua principale occupazione. Ha pubblicato poesie, raccolte di racconti, romanzi, e sta lavorando ad altri progetti. È un’appassionata di racconti brevi

Guarda tutti gli articoli scritti da Susanna Trossero

Storie di serial killer

Nella mente degli assassini seriali attraverso l’analisi della scrittura

di Lidia Fogarolo

editore: Graphe.it

pagine: 224

Chi è il tipico serial killer? Un maschio, bianco, single, sulla trentina, emotivamente dissociato. È proprio così?

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