Nato nel XVII secolo nell’ambito della waka, cioè la poesia giapponese tradizionale, lo haiku è un componimento relativamente recente, composto di tre versi che presentano almeno una cesura, e complessivamente 17 more, ossia unità di misura fonetiche, dal momento che, essendo quella nipponica una scrittura ideogrammatica, non presenta vere e proprie sillabe.
Poesia alta eppure popolare (molti vi si dedicano ancora oggi in Giappone, poeti di professione o solo per diletto) è un’arte piuttosto diffusa, tant’è che annualmente l’imperatore indice un concorso pubblico per il componimento migliore, scegliendo personalmente il tema.
Haiku, un quadro impressionista fatto poesia
Nell’approfondire la mia conoscenza su queste composizioni per scrivere il presente articolo, ho subito pensato che gli haiku sono per la letteratura quello che le opere degli impressionisti sono per l’arte: momenti fuggevoli di cui l’artista ha appena un’impressione (da cui il nome della corrente pittorica omonima) che velocemente deve fissare sulla tela o sulla carta per non dimenticarla per sempre.
Ma nonostante queste caratteristiche, lo haiku ha comunque una struttura rigida: privo di titolo, deve presentare un kigo, cioè un riferimento stagionale che faccia capire il momento dell’anno in cui è stato realizzato o al quale si riferisce, o almeno il momento della giornata (il piccolo kigo). Comporlo richiede un grande sforzo di sintesi tutt’altro che semplice perché è necessario arrivare al cuore, all’essenza della comunicazione spogliandola delle cariche lessicali, ma mantenendo l’intensità dell’immagine e il potere di suggestione che sembra invitare il lettore a completare nella sua fantasia quanto appena accennato.
Inoltre, come obbligatorio è inserire un elemento naturale, lo è anche scegliere un sentimento attraverso il quale esprimersi: si può spaziare dalla leggerezza alla delicatezza, dalla sofferenza di una vita in solitudine alla nostalgia o al rimpianto per il tempo che passa.
Poesia haiku esempi
Mai come questa volta credo che per spiegare la filosofia che sta dietro a un componimento come un haiku sia meglio leggerne alcuni piuttosto che formulare teorie che tra l’altro fanno spendere molte più parole di quelle che servono alla poesia stessa, tradendone di fatto la natura.
Mi rifaccio alla saggezza della rete che giudica i seguenti tra i migliori haiku che siano mai stati scritti:
- “Mondo di sofferenza: eppure i ciliegi sono in fiore” di Kobayashi Issa.
- “Il tetto si è bruciato: ora posso vedere la luna” di Mizuta Masahide.
- “Accatastata per il fuoco, la fascina comincia a germogliare” di Nozawa Bonchō.
- “Che luna: il ladro si ferma per cantare” di Yosa Buson.
- “Prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole” di Matsuo Bashō.
Belli davvero.
E cosa sono i tanka?
Anche i tanka sono componimenti tradizionali della poesia giapponese, in realtà molto più antichi degli haiku poiché diffusi a partire dal V secolo d.C. e in un certo qual modo antenati degli haiku stessi. Formati da almeno cinque versi da 31 more totali, ben presto i primi tre versi iniziarono a godere di vita propria, dando origine così a componimenti ancora più brevi e scarni: gli haiku appunto.
Anche nei tanka ci sono riferimenti al mondo naturale, ma anche al mondo interiore del compositore: sono poesie molto più introspettive che possono avere addirittura tratti ironici quando non perfino volgari.
Da un punto di vista tecnico le composizioni sono divise in due parti che creano un effetto di contrasto l’una con l’altra e appartengono di diritto allo spirito Zen che vede l’uomo realizzato solo se parte integrante dell’ambiente in cui vive.
Anche i tanka, dunque, sono un ottimo esercizio di sintesi e immaginazione, magari da considerare come via intermedia prima di arrivare alla perfezione dello haiku.
Foto | Simonida via Depositphotos
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