È considerato uno dei più importanti autori del secondo Ottocento italiano, Emilio De Marchi, ma allora perché lo annoveriamo tra gli autori dimenticati? Ma – domanda più importante ancora – perché oggi dovremmo disturbarci a riscoprirlo con le tante pagine di letteratura che non faremo mai in tempo a leggere in una sola vita? La risposta è semplice: questo scrittore aveva una visione educativa della letteratura e forse recuperare questa dimensione nel mondo di oggi sarebbe vantaggioso per tutti.
L’archetipo manzoniano
Di De Marchi si usa dire che la sua letteratura s’inserisce nel solco ben tracciato dal Manzoni, sia da un punto di vista delle tematiche - anche geograficamente parlando perché entrambi vivevano e scrivevano in territorio lombardo - sia dal punto di vista stilistico di un Verismo però ben diverso da quello del Verga: a differenza di questi, infatti, De Marchi non si fa scrupoli a intervenire direttamente nel racconto. Il motivo di queste “interferenze” sono da ricercare proprio nel Verismo demarchiano che ha un obiettivo moralistico e non puramente descrittivo della realtà.
Quando la vita influenza la letteratura
Oltre all’esempio manzoniano, però, se vogliamo ben afferrare le istanze poetiche di De Marchi dobbiamo indagarne la biografia quel tanto che basta per capire quanto le sue vicissitudini personali abbiano sviluppato alcuni aspetti della sua personalità, poi riversatisi nelle sue pagine.
Innanzitutto rimase orfano di padre a soli 9 anni, con una madre molto energica che ebbe la forza e il coraggio di condurlo fino alla laurea in Lettere. Una volta laureato, insegna Stilistica all’università e frequenta il mondo letterario milanese ma anche le istituzioni caritative, abitudine che si fa risalire alla sua solida fede cristiana. Inizia a scrivere e pubblicare romanzi a puntate sulla stampa, come si usava all’epoca, fonda riviste letterarie, poi si dà anche alle traduzioni, agli scritti politici e pedagogici e ai saggi di critica letteraria.
Sposato con Lina Martelli, ha un figlio e una figlia, Cesarina, la morte della quale alla tenera età di 15 anni, lo segnerà profondamente, determinandone anche in letteratura il caratteristico pietismo negativo e la rassegnazione.
La questione morale
Abbiamo detto che tutta la produzione dell’autore ha un’impronta fortemente moralistica, ma ora entriamo più nel dettaglio: già nei primi romanzi come Tra gli stracci, Il signor dottorino e Due anime in corpo, la morale che si evidenzia è quella borghese per cui l’onestà paga più della ribellione, tanto che la divisione dolorosa tra ricchi e poveri arriva a essere necessaria, o comunque non giustifica la violenza della lotta di classe che in quegli anni avrebbe raggiunto punte inedite come i moti milanesi del 1898 repressi nel sangue dal generale Bava Beccaris. Quelli di De Marchi sono eroi dimessi, condannati a un’esistenza mediocre, anche nelle opere minori come Arabella, nipote del più famoso Demetrio Pianelli e come lui estremamente sfortunata e infelice.
Il giallo come genere prediletto
Per raggiungere l’obiettivo di trasmettere la sua visione amara della vita, infine, De Marchi abbracciò spesso e volentieri il genere giallo – che allora si chiamava “giudiziario” – perché ben si confaceva a un insegnamento di tipo educativo. Un esempio per tutti è Quel maledetto coltello… opera del 1899 in cui il protagonista, Stefano, bravo ragazzo soprannominato "el bel biondin", figlio unico di madre vedova, corretto e amato da tutti, rimane ucciso durante una rissa nel tentativo di difendere un innocente.
Foto | Emilio De Marchi, Public domain, da Wikimedia Commons
Inserisci un commento