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Salvatore Di Giacomo e il pesce d'aprile

Salvatore Di Giacomo e il pesce d'aprile Salvatore Di Giacomo e il pesce d'aprile
Salvatore Di Giacomo e il pesce d'aprile

Le origini del pesce d'aprile sono avvolte nel mistero. Per citare Carlo Lapucci nella prefazione alla Breve storia del pesce d'aprile di Giuseppe Pitrè siamo dinanzi a un argomento che sfugge di mano, scivoloso come un pesce, appunto. Fiumi d'inchiostro si sono versati sulle origini di questa tradizione e ognuno dice la propria in merito.

Tra le pagine più simpatiche in merito possiamo annoverare un articolo di Salvatore Di Giacomo dal titolo L'origine del pesce d'aprile e pubblicato sul Corriere di Napoli il 1 aprile 1899. Una spiegazione perfetta sulle origini del pesce d'aprile, se non per un particolare: è, a sua volta, una burla! In una lettera a Benedetto Croce, Di Giacomo rivela che i vari documenti citati lungo l'articolo sono stati inventati da lui. Siamo dinanzi a un meta-pesce d'aprile!

A seguire l'articolo completo di Salvatore Di Giacomo.

L'origine del pesce d'aprile

Vi racconterò brevemente com'io sia stato indotto a pubblicare, per ragioni di storia e d'attualità. l'articoletto che siete per leggere.

A tempo perso, molto perso anzi, poi che, se con la poesia e con l'arte si guadagna ben poco in questo nostro dolce paese, si guadagna addirittura nulla con la ricerca storica, a tempo perso, dicevo, io raccolgo da carte d'archivii, da' soliti polverosi codici delle biblioteche e da qualche privata collezione que' documenti che mi paiono più nuovi e curiosi per la illustrazione de' nostri vecchi usi e del costume e fin di certe persone di Napoli antica. La ricerca è una cultura e un diversivo: anni addietro mi vi abbandonavo con passione e concedevo tutto me stesso, per intere giornate, all'emozionato studio di fasci (così si chiamano alcune raccolte di carte vecchie in Archivio di Stato) i quali m'andavano a mano a mano svelando intimi particolari della vita de' secoli scorsi e intrattenendo, specie nel decimottavo ch'è il più vicino al nostro, con l'esposizione un po' goffa, un po' enfatica ma sempre molto dilettevole, degli avvenimenti più singolari i quali seguivano, di volta in volta, nella Fedelissima.

Appresso, divenuto impiegato dello Stato con grande scandalo de' miei amici artisti, mi sono risovvenuto degli studi storici. Sì, è vero – pensavo – io ho, come dicono i miei amici, il piede a terra, ma se posso finalmente dormire su due cuscini, da che il mio lunario è assicurato, non meno, prima di addormentarmi, mi sarà permesso di meditare alla maniera con la quale potrò sbarcarlo più decentemente. La storia – e questo l'hanno detto quasi tutti i ministri della Pubblica Istruzione – è la maestra della vita: seguitiamo, dunque, a occuparci di storia e ad ammaestrare; lasciamo l'arte, scriviamo degli articoli eruditi, delle monografie peregrine, de' resoconti, parecchio annotati, d'indagini preziose, e aspettiamo, premio alla nostra disinteressata attività, fra dieci, fra quindici, fra vent'anni – che importa? – una qualche promozione… per anzianità di servizio.

Ciò premesso, ditemi voi se non ho avuto un'eccellente idea quando mi son detto: Giacchè da un pezzo hai serenamente rinunziato allo struscio e in questi santi giorni non hai proprio nulla da fare, valli a passare in operoso studio alla Società di Storia Patria, in compagnia d'un cimelio e dell'ottimo conte Lodovico de la Ville sur Yllon. Detto fatto: ed eccomi ieri seduto alla gran tavola di quella sala da studio, davanti agli ultimi cinque manoscritti che il comm. Luigi Riccio ha donato alla Società. della quale egli è tanta parte vigile e ammonitiva.

Il comm. Luigi Riccio s'occupa di bibliografia vesuviana, materia pietrosa ma spesso interessante per l'attinenza che ha con la vita de' parecchi comuni napoletani - i quali, con pittoresco segno d'anfiteatro, stanno sotto il monte minaccioso – e di Napoli medesima sulla quale. parecchie volte è caduta la cenere in gran copia e che ha udito. assieme, il cupo rombar del monte e visto - come dice un sonetto del gesuita Ridolfi - perfino i pesci incenerir nel mare. I manoscritti donati dal Riccio discorrono tutti e cinque di svariate eruzioni seguite nel decimosesto e decimosettimo secolo: due hanno l'aria di voler essere scientifici precisamente, due altri espongono i fatti a' quali gli scrittori di quelle narrazioni hanno assistito, il quinto finalmente, segnato M. CC. 47, è veramente un giornale del genere de' parecchi che le biblioteche raccolgono con interessamento speciale, così come quelli del Passero, del duca di Monteleone, del Fuidoro, del Conforto e di tanti altri, documenti dell'osservazione e della critica personale che tutti costoro si pigliavan la cura di comporre a casa, giorno per giorno, con un'assiduità e una costanza degne della considerazione in cui son venuti appresso quelli scritti.

Mi son fermato sul codice M. CC. 47 perché de' cinque è stato il primo che ho scorso con una certa curiosità. Lo scrittore non dimentica, alle prime pagine, di brevemente informarci dell'essere suo: pare anzi che ci tenga. E non è questa la prima volta che una rapida e ambiziosetta autobiografia è posta davanti a cronache siffatte. Li miei natali furono – trascrivo letteralmente – alli 16 del giugno 1570 nella Fedelissima città di Neapoli (sic) ad hore ventuno, alla Piazzetta de Portanova, nella casa che fu de' signori Mocci et hora è del mco. (magnifico) Antonello Seripando. Fu mio padre il mastrodatti Aniello Salzano con Lucretia Santacroce congionto et me chiamarono Felipo. S'incomenza questo giornale alli 18 luglio 1630, sotto il nobile governo dell'Eccellentissimo don Ferdinando Afan de Ribera Enriquez, duca di Alcalà. Difatti il Salzano va ricordando a' suoi supposti lettori parecchie note vicende di quel viceregnato, e dico note poi che ricordo d'averne letto nel famoso «Teatro de' viceré» del Parrino. Ma costui non ha certo badato, come ha fatto il figliuolo del mastrodatti, a' più piccoli pettegolezzi che andavano in giro per Napoli, di quelli anni. Il Parrino ha voluto essere storico, il curiale ha insistito sopra argomenti che la storia abbandona e si è soffermato un po' su tutto. Dalla descrizione del solenne ricevimento d'un Reggente in Castelcapuano egli salta a piè pari alla inaugurazione d'una spetieria nella ottina di Pozzo Bianco; riproduce appresso una delle sentenziose prammatiche del de Ribera e la fa seguire subito, al verso della pagina, dalla… nota delle spese fatte in casa per lo matrimonio della mia sorella Lianora (Eleonora) con Ventura, copodiece di Santo Giosep­po. Parte da Napoli il de Ribera e lo sostituisce – nel viceregnato, al 1631, il conte di Monterey, don Emmanuele di Gusman Zunica y Fonseca: e il Salzano chiude con un degno pistolotto la narrazione particolareggiata de' fatti accaduti durante il governo del duca e dà subito appresso la stura al racconto di quelli che seguono mentre il conte di Monterey comincia a ricever visite ufficiali in Palazzo.

 

Trascrivo qualche passo la cui cognizione è necessaria al lettore che vorrà seguire il Salzano e me fino alla conclusione di questo scritto. A carta 102 del suo giornale, sotto l'anno 1631, è notato dal curiale: «Ieri, 24 marzo, il monte (parla qui del Vesuvio) continovò a dare fumo copiosissimo et procaci fiamme. E fu questo un funesto ammonimento dopo le due hora dal mezzodì.

All'istess'hora li padri Giesuiti ordinorno una devota e numerosa processione per tutte le strade della Città con diversi misterii della Passione di Nostro Signore Giesù Christo, con la statua di santo Ignatio e santo Francesco Xaverio e fu quella ben ordinata in questo modo. Andavano quattro padri scalzi vestiti di cotte riccie con lumi accesi nelle mani in mezzo delli quali era portata una di quelle statue su le spalle di Padri, et a questi seguitava gran numero di persone vestite di sacco et scalzi con lumi accesi ben ordinati, seguitando appresso quattro altri Padri, et appresso una processione di battenti a sangue con altre statue di santi, con quella devotione ch'haverebbe incenerito qualsivoglia dura pietra o cuor di diamante...».

Seguono, giorno per giorno, resoconti interessantissimi di quanto, durando l'eruzione, accadeva in Napoli, straordinariamente terrorizzata dalla pioggia di cenere e da' boati del monte. Di volta in volta il racconto emozionato si spezza e v'abbattete in appunti come questo: «È venuta in uso una sorta de guanti di rella de seta negra e tutte le donne li mettono, fino le plebee. Quest'uso è imitato (sic) da una sorella del Re Felippo IV, quale sorella si maritò a don Fernando d'Austria re d'Ungaria et venne ad Neapoli». O come quest'altro: «L'altro dì 28 marzo, è sorta briga tra don Titta d'Alessandro et Tonno Capece in casa di Tolla Bove, allo Spirito Santo, et vi restò morto il d'Alessandro».

Finalmente, a 31 marzo, si legge: «S. E. il Viceré Illustrissimo signor conte di Monterey rengratiando il Sommo Nostro Protettore San Gennaro si è recato nell'Arcivescovado (Duomo) a presentiare alla solenne messa fatta celebrare da S. E. il Cardinale a pubblico segno di gaudio per lo cessato incendio del Vesevo. Doppo, tra moltitudine immensa di popolo lagrimante, il signor Conte, accompagnato da tutti li Eletti e dalla Nobiltà con il Reggente della Vicaria e il Collaterale, si restituì a Palazzo. E qui era preparata una magnifica collatione alla quale non mancorno li soliti donativi dei pescivendoli della città et padroni di chianche posti de frutta.»

E al giorno appresso:

«Volle S. E. ripetere in Palazzo stamani la collatione che vi fu ieri. Et ciò fece per un dilettoso frangente occorso alla prima di esse, che cioè, avendo S. E. assai gustato di certo pesce largo et scamazzato. quale da noi dicesi marmolo, ripetutamente ne interrogò li suoi familiari, quali havendo fatto venire il donatore di quel pesce Lorenzo Gammadella, volle S. E. degnarsi di comandargli che facesse servito d'un altro delli detti marmoli. Al che havendo il Gammardella risposto ch'e di quella qualità et peso non danno le nostre acque se non fino alla mettà del mese de marzo, il signor Viceré non dandoli più tempo di ripetere et insistendo molto et anche pronontiando alcune adirate parole in spagnolo, impaurissi il Gammardella et promise di portare il marmolo. Ma non havendo in niuna fatta maniera trovato alcun marmolo né alla Preta de lo Pesce né alla Matalena né alle barche de Gaeta stava disperatissimo et agitato. Il che vedendo un suo comparo, cuocho del signor principe di Conca, et composto uno marmolo al naturale pie di pasta riale, che se dice che molto gusti S. E. questo tutto de zuccaro e ben dipinto il Gammardella portò a S. E. e con intesa del Scalco di S. E. fo servito in tavola. Al che il signor conte meravigliatosi assai et trovato concettoso il remedio, se dice che pronontiasse : E viva el señor Gambardilla· che m'ha fatto il scherzo! E bienvenido sia el pesce d'Aprile, da po che il pesce de marzo non se ritrova. Et questo gratioso incontro si è saputo per tutta la città.»

Basterebbe questo documento per indurci a credere che l'origine del così detto pesce d'aprile dati dalla prima metà del seicento. Ma il Salzano, una ventina di giorni dopo quel fatto, ritorna sull'argomento per dire, a pagina 207 del suo diario: «Oramai tutti conoscendo per la voce che se n'è divulgata il caso della collatione con il scherzo del marmolo è nato nella Nobiltà l'uso di ripetere con svariate immaginazioni la burla fra di essi (sic). Va per tutte le bocche quella inventata al giodice di Vicaria Pietro Volcano, quale hebbe uno cane con la pella d'un piecoro cosuta attorno».

E a me non pare, in verità, senza darmi l'aria d'aver fatta una grande scoperta, che si possa più dubitare della cronologia e del luogo della curiosa e innocente invenzione, la quale, dopo due secoli e mezzo, rallegra ancor tanta gente e dà tanto sui nervi a tant'altra.

Foto | WikiCommonsPixabay – Eugenia Paffile
 

Breve storia del pesce d'aprile

di Giuseppe Pitrè

editore: Graphe.it

pagine: 96

Alla scoperta di una delle più longeve, simpatiche e misteriose tradizioni italiane (e non solo)

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