Uno sguardo quello di Cristina Annino (1941-2022) che non trema. Mai sembra oscillare in quell’indecisione destinata a inghiottire i più. Mai si perde nel solco troppo mosso e variabile di una emotività falsa o lamentosa.
Un linguaggio, il suo, che qui come altrove sembra tendersi parossisticamente fino a spezzarsi. A fulminare in un modo o nell’altro la pagina, lanciandosi, al pari di un abile e destro funambolo, in mezzo alle parole, tra quei versi sempre pronti a rompersi, a rincorrersi in una fuga frastagliata. In una resurrezione di volta in volta miracolosa e inarrestabile. Sarcastica e affilata come la lama di un bisturi.
Tuttavia in quel suo guardare visionario e incontestabilmente pittorico (mai questo ci è sembrato così vero come nella silloge pubblicata da Graphe.it L’udito cronico per la collana Le mancuspie diretta da Antonio Bux) si avverte l’esattezza appuntita di uno strumento nato per vivisezionare. Mostrare con mano risolutamente ferma il volto sottocutaneo e misterioso della realtà. Del quotidiano. Del gesto messo a nudo senza sentimentalismi o leziose fioriture di maniera.
Un’arte a tratti chiusa in una apparente ossessione circolare. Un viaggio in tondo dove gli scali e le fermate sembrano assomigliarsi, ma che di volta in volta diventano indimenticabili squarci incisi a vivo nella pupilla. All’interno di quell’iride traslucida che, abilmente sospesa sopra mille abissi di luci e ombre, diventa subito testimonianza in chiaroscuro. Scatto segreto e visionario del momento. Di chi o di che cosa ci sta di fronte o indissolubilmente accanto.
Poesie che si offrono come radiografie tridimensionali di un occhio che, fulmineo e fantastico, vicinissimo eppure immensamente lontano, oltrepassa, evocandolo d’emblée, l’allestimento scenico. Quelle barriere del possibile e dell’impossibile sempre disposte, per dirla alla Marcel Proust, a innalzarsi vertiginosamente tra noi e le cose. Tra l’uomo e tutto ciò che si suppone reale o anche solo matericamente visibile.
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