Molto si è scritto in Italia e altrove della prosa di Giorgio Manganelli. Della sua pessimistica visione della realtà. Di quei suoi capolavori oscuri e immaginifici dove la sua mente lucidissima eppure ossessionata cadeva implacabile a scandagliare le profondità degli abissi, a esplorare, con un incerto lume stretto in mano, le cave del sottosuolo. Un mondo tenebroso da cui risalivano figure e lacerazioni. Terrori e squarci di luce. Un talento fatto anche di dissacrante ironia, ma così vasto da travalicare in un momento e con un semplice movimento della penna interi generi letterari.
Manganelli non fu infatti solo saggista e romanziere, ma anche poeta di razza. Una poesia esigua forse nella quantità, ma che conserva intatta ancora oggi tutto il suo estro creativo. La forza travolgente della visione. Lo sguardo dalla pupilla d’oro che vede oltre il visibile. Penetra nel mondo mormorante delle ombre. Percorre le foreste fitte e minacciose del sogno e le cave favolose del mito.
Per lunghi istanti il poeta ci appare allora quasi come un incrocio tra Odisseo e Tiresia e subito dopo un Freud-poeta chino sulla gamma degli archetipi millenari. Delle paure ancestrali. Degli spettri apparentemente senza volto contro cui, volenti o nolenti, dobbiamo ogni istante lottare.
Un uomo pieno di morte, silloge poetica pubblicata da Graphe.it edizioni nella collana Le mancuspie diretta da Antonio Bux, ci appare allora come la summa di questo viaggio visionario, trafitto, ripido che Giorgio Manganelli compì chiuso in un continuo assedio. Un assedio destinato a stringerlo, visione dopo visione, sempre più da vicino.
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