Chi sono davvero I matti di Sànpert? Figure marginali, dimenticate, poetiche. Anime che sopravvivono nei rifiuti della società e nelle crepe della normalità. In questa intervista doppia, Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni ci conducono dentro il loro universo espressivo, inaugurando un nuovo genere: il graphic soul. Non solo un libro, ma una visione. Una voce plurale che fonde poesia, disegno, filosofia e spiritualità per raccontare l’invisibile. Scoprire Sànpert è come attraversare un paesaggio interiore dove ogni pagina è una ferita e ogni parola un balsamo.
Intervista a Sànpert: scrivere con voce plurale e anima visiva
I matti di Sànpert inaugurano il “graphic soul”, un nuovo genere espressivo. Potete spiegarci cosa intendete con "graphic soul" e perché avete sentito il bisogno di creare questa definizione per l’opera?
Esiste il graphic novel, ma anche il meno conosciuto graphic poetry. Noi però vogliamo mettere al centro delle nostre storie la spiritualità. Ciò non toglie che vi possa essere ironia, oppure risentimento o sarcasmo, ma il tutto non è mai fine a se stesso, o a una sterile polemica, bensì riconduce sempre a qualcosa che si trova nel profondo di ognuno di noi e che troppo spesso tendiamo a soffocare.
Il vostro libro non è solo fumetto e non è solo poesia, ma un intreccio profondo di immagini e parole. Come si realizza questo intreccio nel vostro processo creativo? Potete raccontarci come immagini e parole si sono fuse fin dall’inizio?
Volevamo dar vita a semplici personaggi. Volevamo dar vita a personaggi complessi. Come conciliare le due volontà se non in una sintesi grafica e poetica insieme?
Nel libro, I matti di Sànpert sono “personaggi dalle mille vite” che vivolo su “fogli avanzati dalla stampa dei grandi libri che hanno una sola vita, forse artificiale”. Chi sono questi “matti” e cosa significa per voi questa contrapposizione tra le loro mille vite e la vita artificiale dei grandi libri?
La parola “matti” oggi è pressoché bandita in nome del politicamente corretto (forse si dovrebbe dire “diversamente pensanti”? Mmaahh). Invece i matti esistono e siamo tutti noi; ricordiamo la lezione di Freud e di Lacan: possiamo comprendere qualcosa della vita non certo a partire dalla “normalità”. Nei libri che vanno per la maggiore, invece, troppo spesso ci sono cattivi da esecrare o redenti coi quali empatizzare.
D'accordo con l'editre, avete scelto di stampare il libro su carte diverse, recuperate da altri processi di stampa. È una scelta concreta ma anche simbolica. Potete spiegarci sia il lato pratico che il significato più profondo di questa scelta? E come pensate che influenzi l’esperienza del lettore?
I matti di Sànpert vivono su carta avanzata, scartata, perché amano la bellezza che sopravvive nel rifiuto. Cercano poesia nei resti che il mondo abbandona: fogli diversi, pagine sospese, senza margini. Ogni frammento è un inizio, una voce che resiste al silenzio. Scrivere sullo scarto è un gesto d’amore per ciò che è stato usato, dimenticato, lasciato andare. È un’arte fragile e ostinata. Una parola che nasce ai bordi e diventa centro. È la rivincita del poco, del ritagliato, del vero. Il canto sottile di ciò che non brilla, ma resta. Il lettore, poi, saprà collegare la vista al tatto.
Che cos’è Sànpert? O, forse, meglio: chi è Sànpert? Non solo un luogo, ma anche uno stato d’animo? Potete raccontarci come questo concetto attraversa l’intero libro?
Sànpert è un re che ha perso il suo Dio, in alto, e i suoi sudditi, in basso. E si ritrova a brancolare alla ricerca di domande infinite, le uniche che potrebbero tenerlo in vita.
In che modo l’estetica visiva e quella testuale lavorano insieme per creare quei “tratti ruvidi e dolcezze inaspettate” che raccontano la vostra emotività?
Una delle nostre storie dice che la mente è una vela, atta a navigare senza sosta, ma il cuore è un’àncora, che di navigare non vuole saperne affatto. E allora la nostalgia, e poi l’odio, ma anche l’amore, il rancore, l’umiliazione, l’esaltazione. Tutto questo è il “guazzabuglio del cuore umano” per dirla con Alessandro Manzoni.
Ogni tavola è una ferita aperta, ogni parola è un sussurro che lacera il silenzio. Com’è stato creare immagini e testi capaci di trasmettere una tale intensità? C’è stato un momento particolarmente difficile o significativo in questo percorso?
La grande scrittrice americana Flannery O’Connor diceva: “Voglio vivere, non funzionare”. Noi ci atteniamo a questa sua volontà. È il nostro faro, talvolta difficile da vedere nella notte perché tutto congiura per farci funzionare, ma ci proviamo instancabilmente.
Il libro parla a chi non ha paura di guardare il dolore negli occhi e di scoprire, a volte, che anche lì si nasconde una bellezza indicibile. Qual è il messaggio più importante che sperate arrivi ai lettori, soprattutto a quelle “anime inquiete” a cui vi rivolgete?
Speriamo che arrivi al lettore quello che il grande scienziato teologo Teilhard de Chardin in una lettera chiamava “sussulto di pensiero”, che lui perseguiva sopra ogni altra cosa. Se pensiamo che il gesuita scrisse quella lettera nel 1916, mentre era al fronte di guerra come barelliere, capiamo la portata della sua impresa di vedere “la vita non come fango, bensì oro da raffinare”.
Inserisci un commento