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Chi è stato Giuseppe Gioachino Belli, il poeta di Roma

Chi è stato Giuseppe Gioachino Belli, il poeta di Roma Chi è stato Giuseppe Gioachino Belli, il poeta di Roma
Chi è stato Giuseppe Gioachino Belli, il poeta di Roma

Il poeta romano Giuseppe Gioachino Belli è conosciuto soprattutto per la sua raccolta di sonetti in vernacolo romanesco. Ricordarlo come un semplice poeta dialettale è però probabilmente riduttivo e sicuramente non esatto poiché la sua produzione letteraria in lingua italiana, anche se non nota e forse non degna di essere ricordata come quella in dialetto, è ben più vasta di quest’ultima e gli procurò una notevole considerazione da pare degli ambienti letterari della Roma papalina quando era ancora in vita.

La biografia di Giuseppe Gioachino Belli

Come spesso accade agli artisti che poi diventano degni di essere ricordati, anche Belli ebbe un’infanzia non facile. Nacque a Roma il 7 settembre 1791 in una famiglia di condizione agiate che fu però costretta a trasferirsi a Napoli durante l’occupazione francese. Dopo la caduta della Repubblica Romana filofrancese, la famiglia Belli poté tornare nella capitale pontificia. Gaudenzio Belli, il padre del futuro poeta, venne quindi assunto come funzionario portuale e si trasferì a Civitavecchia portando con sé la famiglia, ma morirà due anni dopo, presumibilmente di colera o tifo, nel corso di un’epidemia.

La famiglia si trasferì nuovamente a Roma, in via del Corso e dovette affrontare difficoltà finanziarie. Il giovane Giuseppe Gioacchino abbandonò gli studi per contribuire al mantenimento della famiglia con una serie di lavori saltuari e mal pagati.

I viaggi del Belli

Proprio in questo periodo Belli iniziò a dedicarsi alla poesia e alla letteratura, componendo poemi e saggi a imitazione dei grandi dell’epoca, che gli permisero di accedere all’Accademia Tiberina e qualche anno dopo anche in quella dell’Arcadia. Nel frattempo, il poeta trovò un impiego meglio retribuito ma soprattutto sposò la ricca vedova Maria Conti e poté quindi dedicarsi con più tranquillità alla letteratura e ai viaggi in Italia. Visitò infatti Napoli, Firenze, Venezia e infine Milano, della quale si innamorò e dove conobbe le opere del poeta dialettale Carlo Porta, grazie alle quali scoprirà le potenzialità della poesia in dialetto.

Del capoluogo meneghino il poeta dice, in una lettera a un amico:

Io mi son qui [...] reduce di Milano, dove mi piace assai più la vita che altrove. Quella città benedetta pare sia stata fondata per lusingare tutti i miei gusti...

I sonetti dialettali

Si ritiene che il Belli abbia iniziato a comporre i suoi sonetti dialettali nel 1830 e non li divulgò per tutta la durata della sua vita. Nel suo testamento diede disposizione di far bruciare le sue opere ma il figlio, per fortuna, fu di diverso parere e consegnò alla posterità il corpus paterno che, essendo costituito di ben 2279 sonetti è anche uno dei più cospicui di tutta la letteratura italiana del XIX secolo. La proporzione monumentale della raccolta ben si addice alle intenzioni dell’autore che ha espressamente dichiarato:

Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l'indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un'impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza.

Leggendo uno dopo l’altro i sonetti del Belli si può capire bene come il poeta sia stato in grado di porre nei suoi versi tutte le sfumature della vita dei ceti bassi della Roma papalina, dando immortalità e dignità letteraria alle quotidiane tribolazioni della povera gente, alla fame, alla miseria, agli espedienti necessari alla sopravvivenza ed alla costante oppressione di un potere assoluto e dispotico come era quello del Papa-Re.

Gli esseri umani che prendono vita dalla sua penna occupano il gradino più basso della scala sociale dell’Urbe: sono venditori ambulanti o del mercato, macellai, uomini comuni, prostitute, nonché il temuto boia dei papi Mastro Titta (al secolo Giovanni Battista Bugatti).

Spesso nei sonetti appare un “narratore”, che si esprime in prima persona, magari ricordando episodi significativi della sua vita oppure commentando le azioni del potente clero romano, al quale rivolge epiteti non certo gentili.

Il volgo belliano comunque, pur rendendosi capace di generosi slanci d’umanità che ne rivelano il buon cuore e dotato, talvolta, di una certa saggezza popolare che lo invita, solitamente, alla rassegnazione riguardo le miserie della vita terrena, resta comunque ignorante, spesso violento, fortemente superstizioso (al punto da credere che le nuvole siano tenute in volo “geni folletti”) e chiuso e diffidente verso qualsiasi novità.

Non ci è dato sapere quanto e se il poeta abbia mai simpatizzato con l’umanità derelitta che descriveva nella sua opera. Belli si dichiarò sempre conservatore e quando ricoprì l’incarico di responsabile della censura artistica dello Stato Vaticano mise al bando, tra le altre, le opere di Shakespeare, Verdi e Rossini.

Testo a cura di Claudio Gurgone

Foto | Ignoto (forse Giacomo Caneva) / Public domain

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