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Carlo I d'Angiò: il sovrano che sognò un impero mediterraneo tra conquiste e rivolte

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Carlo I d'Angiò: il sovrano che sognò un impero mediterraneo tra conquiste e rivolte

Dopo il successo di Goffredo di Buglione, Sergio Ferdinandi torna in libreria con un nuovo protagonista della storia medievale: Carlo I d'Angiò, il sovrano che sognò di costruire un impero mediterraneo partendo dal Regno di Sicilia. In questa conversazione, l'autore ci accompagna tra le battaglie decisive di Benevento e Tagliacozzo, le strategie politiche e militari che caratterizzarono il regno angioino, e la scelta che cambiò per sempre il destino del Mezzogiorno d'Italia: il trasferimento della capitale da Palermo a Napoli. Un dialogo che restituisce la complessità di una figura storica ancora oggi al centro di interpretazioni contrastanti, oscillante tra l'immagine del grande statista e quella del tiranno straniero. Ferdinandi, con il rigore dello storico e l'attenzione alla leggibilità, ricostruisce l'ascesa e il declino di un progetto egemonico che si infranse contro le resistenze locali e gli equilibri mutevoli della geopolitica duecentesca, culminando nella rivolta dei Vespri siciliani del 1282.

 

Il sogno mediterraneo di Carlo d'Angiò: storia di un impero incompiuto

Dopo il saggio dedicato a Goffredo di Buglione, torni ora con un altro grande protagonista della storia medievale. C’è un filo conduttore che lega queste due figure?
Le analogie tra due figure come Goffredo di Buglione e Carlo I d’Angiò, pur appartenenti a contesti cronologici, geopolitici e culturali profondamente differenti - separati da oltre un secolo e mezzo - possono trovare legittimità storiografica in virtù di alcune significative linee di continuità ideologica, politica e religiosa. Entrambi, infatti, si configurano come protagonisti emblematici di una visione militante della cristianità latina, nella quale il potere temporale si intreccia strettamente con la missione religiosa, con il sostegno esplicito dell’autorità pontificia che ne legittima l’azione sul piano spirituale e politico. Sia Goffredo sia Carlo si presentano come campioni della fede e della Chiesa, espressione di quell’archetipo cavalleresco che fonde idealità religiosa, ethos militare e vocazione al dominio territoriale. La partecipazione alle rispettive imprese crociate - la Prima Crociata per Goffredo, la Settima e l’Ottava Crociata per Carlo, a cui si aggiunge la crociata contro Manfredi di Svevia, definito dalla propaganda papale “Sultano di Lucera” e assimilato a un nemico della cristianità - testimonia l’investitura religiosa delle loro campagne militari, a conferma della loro funzione strumentale nel più ampio disegno geopolitico del Papato. Tuttavia, se in entrambi si coglie una profonda adesione ai codici religiosi dell’epoca, è possibile individuare una divergenza sostanziale nel rapporto con l’istituzione ecclesiastica. In Goffredo, la religiosità appare come una componente strutturale e genuina dell’azione politica e militare: la scelta di non assumere il titolo regale a Gerusalemme, preferendo quello di “Advocatus Sancti Sepulchri”, ne è emblematica espressione. In Carlo, al contrario, oltre a un cumulo di titoli, si osserva un uso spiccatamente strumentale del sacro, teso a rafforzare il proprio potere personale attraverso un sistematico impiego delle istituzioni ecclesiastiche - investiture pontificie, alleanze con il clero secolare e regolare, fondazione di abbazie e utilizzo dei centri religiosi come strumenti di penetrazione politica e culturale - che, in alcune circostanze, rasenta forme di spregiudicata manipolazione. Un ulteriore punto di contatto tra le due figure risiede nel loro impegno nella costruzione di domini mediterranei a forte impronta feudale, ispirati ai modelli organizzativi della tradizione franca. Entrambi si fecero promotori di processi di esportazione e adattamento delle strutture feudali, sia in senso militare che amministrativo, in contesti eterogenei: Goffredo nell’area siro-palestinese, Carlo nel Mezzogiorno italiano, nei Balcani e nelle terre d’Oltremare. Questa capacità di riorganizzare territori etnicamente e religiosamente compositi rappresenta una delle chiavi interpretative della loro azione politica. Degno di nota è anche il retroterra dinastico e simbolico che li accomuna. Entrambi appartenevano a casate di straordinario prestigio nel panorama della cristianità occidentale: Goffredo vantava una discendenza carolingia, mentre Carlo era figlio del re di Francia e fratello di Luigi IX, poi canonizzato. Tale provenienza non solo garantiva una legittimazione genealogica, ma contribuiva alla costruzione di una autorità carismatica e sovraregionale. Dal punto di vista del governo, entrambi operarono in contesti politicamente complessi, in cui dovettero misurarsi con la difficile mediazione tra il potere centrale e le élite locali: Goffredo nelle terre delle Ardenne e nella precaria realtà gerosolimitana, Carlo in Provenza e successivamente nel Regno di Sicilia, dove si confrontò con una nobiltà di origine normanno-sveva e con una società strutturata su basi culturali composite. Le rispettive costruzioni politiche ebbero un impatto determinante sulle dinamiche mediterranee: la fondazione del Regno di Gerusalemme nel caso di Goffredo, proseguita dal fratello Baldovino I, la creazione di un asse politico angioino nel Mediterraneo centrale ed orientale nel caso di Carlo, con ambizioni che spaziavano fino a Costantinopoli. Infine, la dimensione memoriale e storiografica di entrambe le figure offre un terreno fertile per l’analisi delle costruzioni mitopoietiche e delle narrazioni ideologiche postume. Se Goffredo fu a lungo celebrato come modello del cavaliere crociato e dell’ideale cristiano, Carlo fu oggetto di una rappresentazione storiografica marcatamente ambivalente. Da un lato, la propaganda papale e angioina ne esaltò la funzione di difensore della fede e garante dell’ordine; dall’altro, la storiografia italiana di matrice risorgimentale ne fece il paradigma dell’“invasore straniero”, responsabile della decadenza economica e istituzionale del Regno di Sicilia, in contrasto con l’età aurea normanno-sveva. A ciò si aggiunge la forte condanna morale da parte di ampi settori della storiografia tedesca, soprattutto ottocentesca, che non perdonò a Carlo la decollazione di Corradino di Svevia - ultimo rappresentante della dinastia Hohenstaufen - vista come atto simbolico dell’infrangersi dell’ideale imperiale germanico nelle mani della politica papalino-angioina. In sintesi, il confronto tra Goffredo di Buglione e Carlo d’Angiò, pur nella consapevolezza delle differenze strutturali tra i due contesti, offre importanti spunti per riflettere sul rapporto tra religione e potere, sulle dinamiche di legittimazione politica nella cristianità latina, e sulla persistente tensione tra memoria celebrativa e critica storica nella costruzione delle grandi narrazioni del passato.

Il sottotitolo del libro parla del “sogno di un impero mediterraneo”. In parole semplici, quale era l’idea di Carlo I per il Mediterraneo e perché fallì?

Occorre sottolineare come il progetto di Carlo I d’Angiò di costruire una vasta monarchia mediterranea, fondata sul controllo di nodi strategici insulari e continentali e sulla proiezione geopolitica della monarchia angioina nel sud Europa, abbia rappresentato una delle più ambiziose architetture politiche del XIII secolo. Si trattava di un ambizioso progetto finalizzato a connettere strettamente le sponde del Mediterraneo che in ambito storiografico è stato definito anche come “sistema angioino del Mediterraneo”, sostenuto dalla legittimazione pontificia, da una macchina militare efficiente nonché da una rete diplomatica capace di proiettarsi su più scenari simultanei: dal Mezzogiorno italiano alla Grecia, dalla Sicilia all’Impero Latino d’Oriente, fino alla sfera aragonese e nordafricana. Le ragioni del fallimento sono molteplici e intrecciano elementi di ordine politico, militare, finanziario e culturale. Uno dei fattori determinanti fu la eccessiva dispersione geografica del dominio angioino. Dopo Benevento e Tagliacozzo, Carlo ottenne una posizione centrale nel Mediterraneo, ma al prezzo di un’espansione che oltrepassava le reali capacità di controllo. Alla Sicilia e al Mezzogiorno, già complessi da governare per la loro frammentazione feudale, Carlo aggiunse nel 1272 il Principato di Acaia, nel Peloponneso, e nel 1277 acquistò formalmente il titolo di Re di Gerusalemme, oltre a ottenere la signoria su Corfù, Cefalonia e Zante. Il sogno imperiale prese forma anche con la possibile investitura papale del trono di Costantinopoli, riconquistata dai Paleologi nel 1261. Tuttavia, questo insieme eterogeneo di territori, separati da lingue, tradizioni e assetti istituzionali differenti, era tenuto insieme più da un’architettura formale di tipo feudale che da un’effettiva rete amministrativa o militare. Dal punto di vista strategico-militare, l’insostenibilità del progetto fu aggravata dalla mancanza di una flotta permanente sufficientemente forte da assicurare la continuità dei collegamenti tra le diverse sponde del Mediterraneo. Sebbene Carlo avesse avviato una politica navale coerente, facendo leva sulle risorse portuali di Amalfi, Napoli e Brindisi, la supremazia marittima genovese e veneziana costituì un ostacolo costante, mai pienamente superato. Le crociate da lui promosse - come la cosiddetta “crociata anticomnenea” per restaurare l’Impero latino - si infransero contro la resistenza dei Paleologi e il progressivo disimpegno del Papato da un progetto tanto oneroso quanto incerto. Un altro elemento cruciale fu la crisi del consenso interno. L’amministrazione angioina, costruita su modelli capetingi importati e su una burocrazia fedele al sovrano ma culturalmente estranea ai ceti locali, finì per alienare le élite autoctone, in particolare in Sicilia. L’imposizione fiscale crescente, destinata a finanziare le campagne militari e le ambascerie presso la curia romana, generò un malcontento diffuso. Sul piano diplomatico, Carlo dovette infine confrontarsi con un mutato equilibrio internazionale. Il riavvicinamento tra il Papato e l’Impero bizantino, concretizzatosi con l’Unione delle Chiese nel Concilio di Lione (1274), indebolì il progetto anti-bizantino e privò Carlo dell’appoggio necessario per procedere militarmente contro Bisanzio. A ciò si aggiunse l’ostilità crescente della Corona d’Aragona, che rivendicava legami con la dinastia sveva attraverso Costanza di Sicilia, moglie di Pietro III. La guerra del Vespro (1282-1302) si trasformò così in un conflitto di dimensioni mediterranee che annientò definitivamente ogni possibilità di impero angioino transmarino. Il progetto mediterraneo di Carlo I d’Angiò fallì perché fu costruito più sull’ambizione dinastica e sul consenso papale che su una reale capacità strutturale di controllo del territorio. L’eccessiva estensione geografica, l’assenza di un consenso duraturo nelle aree periferiche del regno, la concorrenza navale delle potenze marittime italiane e l’evoluzione sfavorevole dei rapporti internazionali resero impossibile la stabilizzazione di un’egemonia angioina nel Mediterraneo. Più che un impero, quello angioino fu un progetto egemonico incompiuto, fondato su una fragile combinazione di potenza militare, legittimazione religiosa e centralismo amministrativo, che si infranse contro le resistenze locali e gli equilibri mutevoli della geopolitica due-trecentesca. In sintesi, si potrebbe affermare che con Carlo, si chiuse quella finestra che aveva in più occasioni portato le armi occidentali a tentare di conquistare l’Oriente, o comunque parte dell’Oriente bizantino e islamico a partire da Costantinopoli e Gerusalemme; disegno politico che era stato inaugurato nel 1081 con le imprese del normanno Roberto il Guiscardo ed era proseguito con le spedizioni crociate. Emblematicamente, pochi anni dopo la morte del re, nel 1291, anche l’ultimo baluardo crociato in Palestina, san Giovanni d’Acri, cadrà sotto la pressione delle forze musulmane.

Con Carlo d’Angiò, Napoli diventa capitale del Regno al posto di Palermo. Perché questa scelta fu così importante e quali conseguenze ebbe?

La designazione di Palermo quale capitale del Regno di Sicilia da parte di Ruggero II nel 1130 rappresentò il culmine di un processo di centralizzazione politica e culturale nell’ambito del progetto normanno di costruzione di una monarchia mediterranea policentrica ma coesa. Tuttavia, già a partire dalla fine del XII secolo, il primato palermitano cominciò ad affievolirsi nella pratica, pur conservando un forte valore simbolico e liturgico. Il matrimonio tra Costanza d’Altavilla ed Enrico VI di Hohenstaufen, celebrato nel 1186, segnò un passaggio decisivo, poiché comportò lo spostamento del baricentro geopolitico del regno verso settentrione, in ragione della necessità per la nuova dinastia imperiale di governare in contemporanea tanto il Regno di Sicilia quanto il Sacro Romano Impero. In particolare, sotto il regno di Federico II, questa tendenza divenne strutturale. L’imperatore, pur rispettando le forme e le prerogative tradizionali del potere regio normanno in Sicilia - come dimostra la scelta di celebrare a Palermo, nella cattedrale metropolitana, le esequie solenni di suo padre Enrico VI e, più tardi, le proprie nel 1250 - manifestò un interesse governativo marcato per Napoli e, soprattutto, per l’area pugliese (con particolare riferimento a Foggia, Lucera e Castel del Monte), che divenne fulcro della sua progettualità politico-amministrativa e culturale. Nonostante ciò, come dimostrato dall’incoronazione di Manfredi nel 1258, Palermo rimase formalmente la capitale del Regno e sede di alcune importanti istituzioni centrali almeno fino alla conquista angioina del 1266. L’avvento di Carlo I d’Angiò determinò una cesura radicale rispetto alla concezione normanno-sveva della monarchia regnicola. La scelta di Napoli come nuova capitale effettiva, maturata già nei mesi immediatamente successivi alla vittoria militare e formalizzata attraverso una serie di atti organizzativi e simbolici (trasferimento della Curia, concentrazione degli uffici finanziari e giudiziari, costruzione di Castel Nuovo), rispondeva a precise esigenze strategiche: la città, posta al centro della Terra di Lavoro, garantiva un saldo collegamento con Roma, favoriva il controllo dell’Italia centro-settentrionale, e permetteva un’interconnessione agevole con i domini transalpini e provenzali della dinastia. Tuttavia, tale scelta produsse una netta marginalizzazione della Sicilia, la quale, da cuore politico ed economico del regno normanno-svevo, venne progressivamente percepita come periferia dell’assetto monarchico angioino. La riorganizzazione del potere operata da Carlo, fondata su una fitta rete di funzionari franco-provenzali, su una burocrazia centralizzata e su un’imposizione fiscale crescente, si scontrò con le tradizioni di autonomia municipale e signorile dell’isola. Le antiche aristocrazie, legate alla dinastia sveva e radicate in un sistema di potere articolato ma coeso, furono sistematicamente escluse dalla nuova configurazione del potere. In questo contesto, la rivolta del Vespro non può essere ridotta - come ha fatto parte della storiografia ottocentesca e nazionalista - a una mera esplosione di risentimento popolare contro l’arroganza dell’amministrazione angioina. Essa fu, piuttosto, l’esito di un conflitto politico e culturale di lungo periodo, nel quale si manifestò la volontà delle élites isolane di ristabilire l’autonomia dell’Isola, anche cercando protezione in potenze esterne, come la Santa Sede - la cui disponibilità, tuttavia, era compromessa dalla sua alleanza con la monarchia angioina. Questa aspirazione autonomistica non era inedita. Un tentativo simile si era già verificato negli anni cinquanta del XIII secolo, quando Pietro Ruffo, luogotenente imperiale e fedele di Federico II, aveva ipotizzato la costituzione di un potere autonomo in Sicilia, tentativo represso con decisione da Manfredi. La rivolta del 1282, tuttavia, beneficiò di una congiuntura internazionale favorevole, grazie al sostegno di Michele VIII Paleologo, imperatore bizantino ostile a Carlo per la sua politica espansionista in Oriente, e di Giacomo d’Aragona, genero di Manfredi tramite il matrimonio con Costanza di Svevia. L’alleanza tra la nobiltà siciliana e la Corona aragonese portò alla creazione di un nuovo ordine mediterraneo, segnato dalla divisione del Regno di Sicilia in due entità distinte - Napoli e Sicilia - con conseguenze durature sia sul piano politico-istituzionale che su quello culturale. In sintesi, la decisione di trasferire la capitale da Palermo a Napoli, pur razionale in termini strategici e logistici, segnò l’inizio di un processo di rottura profonda tra la Sicilia e la nuova monarchia angioina, contribuendo a innescare un conflitto irrisolto tra centro e periferia, culminato in una delle rivolte più significative della storia del Mediterraneo medievale.

Di Carlo si è detto di tutto: per alcuni fu un grande statista, per altri un tiranno. Quale immagine emerge dal tuo libro, soprattutto per chi non conosce questa vicenda?

È sempre complesso cercare di costruire in una biografia una visione oggettiva di un personaggio che assume gli onori della cronaca contemporanea figuriamoci per una figura storica vissuta più di otto secoli fa. In questo tentativo le ultime parole attribuite al protagonista dal Cronista Giovanni Villani, possono fornire indicazioni per approcciare questo compito: “Signore Iddio, come io credo fermamente essere voi il mio Salvatore, così vi prego che abbiate pietà dell’anima mia. E come feci la conquista del regno di Sicilia più per servire la Santa Chiesa che per mio profitto o altra cupidigia, così vogliate perdonare i miei peccati”. Difficile valutare, se nonostante il profondo spirito religioso che animava Carlo, in linea con la sensibilità del tempo, tale affermazione sia del tutto veritiera. La figura di Carlo I d’Angiò ha suscitato nei secoli giudizi profondamente contrastanti, oscillando tra l’ammirazione per il grande statista e il biasimo per il sovrano tirannico e brutale. Fin dalle fonti coeve, la sua immagine è oggetto di una forte polarizzazione narrativa, frutto sia di una costruzione ideologica promossa dagli ambienti papali e angioini, sia delle feroci critiche provenienti dai suoi avversari, a partire dagli ambienti filo-svevi, siciliani e bizantini. L’analisi storica moderna, pur avendo in parte superato la dicotomia semplicistica tra eroe e oppressore, riconosce nella parabola politica di Carlo una delle più emblematiche espressioni del potere monarchico del Duecento, esito di un ambizioso progetto di egemonia mediterranea che, nel suo apice e nel suo fallimento, riflette le tensioni strutturali dell’Europa medievale. Da un lato, Carlo appare come un costruttore di istituzioni: dopo la vittoria a Benevento e la conquista del Regno di Sicilia, egli avvia una profonda riorganizzazione amministrativa, modellata in parte sulle strutture francesi, ma adattata alle specificità dell’Italia meridionale. La scelta di Napoli come nuova capitale politica ed economica, il rafforzamento del sistema fiscale e giudiziario, l’imposizione di una gerarchia feudale lealista e l’introduzione di una burocrazia centralizzata, indicano una visione modernizzatrice dello Stato. In tal senso, la sua figura si colloca nel solco dei grandi monarchi “costituzionali” del XIII secolo, accanto a Luigi IX e Federico II, con i quali condivide la concezione della monarchia come ordinamento razionale e totalizzante. La storiografia moderna ha evidenziato come Carlo, oltre a un ottimo uomo di guerra, fosse anche un sovrano dotato di una propria visione di governo, fondata su legittimazione religiosa, efficienza amministrativa e supremazia dinastica. Tuttavia, tale costruzione si fondava su basi fragili e fortemente coercitive. La politica fiscale, imposta per sostenere l’espansionismo mediterraneo, fu percepita come opprimente, soprattutto in Sicilia. L’esclusione sistematica delle élite locali dai centri decisionali, la presenza invasiva della nobiltà franco-provenzale, la repressione violenta del dissenso e l’uso selettivo della giustizia monarchica alimentarono un sentimento di estraneità e di ostilità profonda, che trovò nel Vespro Siciliano la sua espressione culminante. La storiografia risorgimentale italiana, sensibile al paradigma dell’autonomia nazionale, ha fatto di Carlo il prototipo del “tiranno straniero”, oppressore di un regno - quello normanno-svevo - ritenuto erede di una civiltà mediterranea avanzata e proto-nazionale. Anche la cultura visuale e letteraria coeva partecipa alla costruzione di queste immagini antitetiche: se nei cronisti angioini quali Giovanni Villani o gli autori della storiografia napoletana del Trecento, Carlo è rappresentato come un nuovo Davide, liberatore del Regno dalla tirannide sveva, in autori come Bartolomeo di Neocastro, Michele Scoto o Saba Malaspina emerge invece la figura di un sovrano spietato, colpevole della decollazione sacrilega del giovane Corradino, ferita nella memoria collettiva germanica al punto da trasformarsi in un oggetto di mitizzazione romantica. A livello storiografico, dunque, l’immagine di Carlo d’Angiò si articola secondo una duplice direttrice: da una parte, quella del sovrano ordinatore, promotore della centralizzazione monarchica e del rafforzamento del potere regio secondo modelli proto-statuali; dall’altra, quella del monarca autoritario, rappresentante di un potere esogeno e insensibile ai legami tradizionali tra monarchia e società locale. Il giudizio sulla sua figura non può prescindere da una valutazione contestuale, che tenga conto sia delle strutture del potere monarchico del XIII secolo, sia delle specificità del Regno di Sicilia, uno spazio politico e culturale plurilinguistico, multietnico e profondamente segnato da una lunga tradizione di autonomie. In conclusione, l’immagine che emerge di Carlo I d’Angiò è quella di un sovrano potente, lucido e pragmatico, capace di operare su scala europea e mediterranea con straordinaria determinazione. Ma al tempo stesso, egli fu un monarca profondamente contestato, incapace di integrare le identità regionali in un progetto egemonico duraturo, e responsabile - se non della crisi del regno - certamente della sua disarticolazione politica. Il suo regno fu insieme apogeo e limite del potere monarchico medievale: ambizioso nella progettualità, ma fragile nella legittimazione e nella tenuta strutturale.

Le battaglie di Benevento e Tagliacozzo furono decisive. C’è un episodio o una scelta tattica che secondo te racconta meglio il modo di combattere e di comandare di Carlo?

Nel quadro della crisi dell’ordine svevo e della ridefinizione degli equilibri politico-istituzionali nell’Italia meridionale nella seconda metà del XIII secolo, le battaglie di Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268) si configurano come eventi di cesura non solo nella costruzione della legittimità dinastica di Carlo I d’Angiò, ma anche nell’analisi della sua prassi bellica e del modello di comando che seppe coniugare efficacemente finalità strategiche, controllo del territorio e ingegneria del consenso. La battaglia di Benevento, combattuta il 26 febbraio 1266, fu caratterizzata da una significativa superiorità tecnico-operativa dell’esercito angioino, ivi inclusa la cavalleria pesante, che poteva contare su una consolidata esperienza maturata in contesti bellici continentali e orientali. Tuttavia, il successo di Carlo non derivò unicamente dalla forza d’urto della cavalleria, bensì da una serie di scelte tattiche impiegate con efficacia in un contesto logistico complesso, segnato dalla fatica della marcia, dalla carenza di approvvigionamenti e dalla necessità di combattere in territorio comunque ostile. Una delle disposizioni tattiche più significative, che riflette un approccio non convenzionale, fu l’ordine impartito da Carlo ai suoi fanti e ribaldi di colpire i cavalli piuttosto che i cavalieri, al fine di disarcionare i nemici - in particolare i milites teutonici, dotati di corazze pesanti e meno mobili nel combattimento ravvicinato - per poi eliminarli con l’impiego di stocchi e armi da taglio nei punti vulnerabili dell’armatura. Carlo dispose inoltre che ogni cavaliere fosse affiancato da uno o due fanti, o da ribaldi armati in modo leggero, rendendo più flessibile il dispositivo operativo e favorendo la manovrabilità nel combattimento corpo a corpo. Tali scelte, pur in apparente contrasto con l’etica della cavalleria, trovavano legittimazione nella cornice ideologica della “guerra santa” promossa dal Papato, volta a estirpare un sovrano scomunicato e accusato di eresia. Il momento culminante dello scontro avvenne quando Carlo decise di impegnare personalmente la seconda linea, mantenendo in riserva la terza, secondo una logica di impiego graduato e modulare delle forze. La battaglia si trasformò progressivamente in una mischia statica, favorita dall’afflusso disordinato delle truppe sveve al comando di Galvano e Bartolomeo Lancia. In questa fase, la superiorità angioina derivò dalla maggiore mobilità delle forze leggere, che, sfruttando le direttive di Carlo, seppero sfruttare il combattimento ravvicinato per indebolire sistematicamente la cavalleria nemica, determinando un arretramento progressivo delle forze sveve e, infine, il loro collasso e conseguente massacro. La battaglia di Benevento, che molti contemporanei interpretarono come una forma di iudicium Dei, presenta analogie strutturali e simboliche con un altro celebre scontro che aveva avuto luogo esattamente due secoli prima: la battaglia di Hastings (1066). In entrambi i casi, il confronto armato si concluse nel breve arco di una giornata con l’uccisione del sovrano legittimamente consacrato e con la trasformazione immediata dell’assetto politico-istituzionale del regno. Sia Carlo d’Angiò che Guglielmo di Normandia si presentavano come campioni della Chiesa, investiti di una missione provvidenziale, come testimoniato dalle insegne liturgiche e i simboli del patrocinio ecclesiastico (stendardi, croci, benedizioni pontificie). Sul piano delle conseguenze, le due battaglie segnarono una frattura decisiva nella struttura feudale preesistente. Come per l’Inghilterra, anche nel Regno di Sicilia l’affermazione angioina avviò un processo di radicale sostituzione dell’aristocrazia, con il progressivo smantellamento della feudalità normanno-sveva e la sua sostituzione con una nobiltà di origine franco-provenzale, lealista e strettamente legata alla corona. Questo processo di sostituzione feudale si completerà definitivamente dopo la vittoria di Tagliacozzo, che oltre a sancire la fine della linea sveva rappresentò il completamento del progetto politico angioino: un regno fortemente centralizzato, legittimato religiosamente e controllato da una rete feudale transalpina. La battaglia di Tagliacozzo, combattuta il 23 agosto 1268 tra le forze angioine e quelle guidate da Corradino di Svevia, a un’analisi tecnico-militare fornisce una ulteriore visione della qualità militare e tattico-strategico di Carlo e del suo stato maggiore. Le fonti concordano nel sottolineare l’andamento bifasico dello scontro: una prima fase favorevole alle truppe sveve, che misero in rotta le prime linee angioine, e una seconda fase determinata dal ricorso a una riserva tattica nascosta - un dispositivo innovativo per l’epoca, almeno in ambito mediterraneo, che dimostra una notevole padronanza dei principi della guerra indiretta. Secondo l’interpretazione consolidata, Carlo I aveva preordinato l’occultamento di una forza di cavalleria scelta, composta da circa 600 cavalieri sotto il comando di Erard de Valéry, in un terreno retrostante rispetto all’area di combattimento, probabilmente lungo un asse laterale rispetto all’alveo del Salto. Questa forza intervenne nel momento in cui le truppe di Corradino, credendo la vittoria acquisita, si erano disperse nel saccheggio del campo nemico. L’intervento fulmineo e coordinato di questa unità di riserva operativa, impiegata in contromossa, determinò il crollo della coesione sveva e permise a Carlo di ottenere una vittoria totale. Una manovra risultato di un’applicazione pragmatica dei principi esposti nel De re militari di Vegezio, trattato militare romano del IV secolo d.C., circolante nella cultura politico-militare dell’epoca, soprattutto nelle corti transalpine. In particolare, l’uso della “seconda linea non visibile” come strumento per rompere l’assalto nemico richiama modelli già sperimentati nella prassi bellica francese e inglese. Entrambe le battaglie furono rilevanti non solamente per gli aspetti tattico-militari ma soprattutto per l’affermazione del potere angioino. La morte di Manfredi sul campo di battaglia di Benevento e la cattura e l’esecuzione di Corradino sembravano aver assicurato a Carlo I il pieno controllo sul Regno di Sicilia anche se in realtà non avevano eliminato del tutto l’opposizione che si sarebbe manifestata nel 1282.

Questo libro esce nella collana I Condottieri, pensata anche per chi si avvicina alla storia senza conoscenze specialistiche. Come hai fatto a mantenere l’equilibrio tra rigore storico e leggibilità?
Nell’ambito della produzione storiografica, la scrittura destinata al grande pubblico rappresenta una sfida metodologica cruciale: essa impone la necessità di coniugare rigore scientifico e accessibilità narrativa, ovvero di tradurre la complessità delle dinamiche storiche in forme comunicative efficaci, senza compromettere la correttezza delle informazioni né la pluralità delle interpretazioni. L’opera divulgativa non si dovrebbe configurare come una semplificazione riduttiva del discorso storiografico, ma come una sua rielaborazione formale e funzionale, orientata alla costruzione di un sapere condivisibile, ancorché fondato. In questa prospettiva, la narrazione storica destinata a un pubblico non specialistico deve mantenere una stretta aderenza alla documentazione primaria e ai risultati consolidati della ricerca, integrando eventualmente le principali ipotesi storiografiche in corso, e segnalando con chiarezza i margini di incertezza interpretativa. Chi scrive, in questo caso è chiamato a esercitare una funzione di mediazione culturale, riformulando contenuti complessi attraverso un lessico accessibile e una struttura narrativa coerente, ma senza cedere alla spettacolarizzazione degli eventi né alla drammatizzazione eccessiva delle figure storiche. Un aspetto centrale di tale processo riguarda l’impiego delle fonti, che devono essere presentate con trasparenza anche in contesti divulgativi. La loro esplicitazione, anche qualora non avvenga tramite un apparato critico tradizionale, può essere integrata nel testo attraverso riferimenti discorsivi, inserimenti contestuali o apparati di approfondimento, mantenendo così un saldo ancoraggio alla metodologia storica. Parallelamente, la problematizzazione delle interpretazioni - elemento fondativo del metodo storiografico - va preservata anche nel testo divulgativo, mostrando al lettore la dimensione pluralistica e dinamica della conoscenza storica, e non un sapere lineare o dogmatico. Il linguaggio, pur spogliato dei tecnicismi accademici più opachi, deve conservare precisione semantica e adeguata densità concettuale, evitando riduzioni semantiche che portino a distorsioni interpretative. Da un punto di vista teorico, la divulgazione storica non deve assolutamente essere considerata come una fase “discendente” rispetto alla produzione accademica, quanto come una fondamentale forma parallela e complementare di costruzione del sapere, dotata di proprie finalità epistemologiche e propri criteri di legittimazione. In tal senso, essa può fungere da spazio privilegiato per la riflessione sull’uso pubblico della storia, sulla memoria collettiva e sulla responsabilità etico-civile del mestiere dello storico. In conclusione, quello che si è tentato di fare in questa breve biografia su Carlo I d’Angiò è stato tentare di mantenere un equilibrio tra rigore scientifico e leggibilità tra contenuto e forma, tra esigenze epistemologiche e obiettivi comunicativi. Mantenere tale equilibrio non significa rinunciare alla complessità, ma rendere possibile la sua trasmissione attraverso modelli narrativi accessibili, rispettosi del metodo e capaci di stimolare, nel lettore, una comprensione critica e consapevole del passato. 

A questo punto incrociamo le dita e confidiamo nella pazienza e benevolenza dei lettori!
 

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