La suddetta opera dello scrittore inglese Thomas De Quincey è l’unica ad avergli conferito un po’ di notorietà in vita ma, ahinoi, la natura autobiografica dell’argomento è stata, al tempo stesso, la più grande ragione del suo dissesto finanziario. Pubblicate inizialmente in forma anonima e a puntate tra il settembre e l’ottobre 1821 nel London Magazine, le Confessioni di un mangiatore d’oppio apparvero in volume nel 1822. Ne uscirà anche una seconda edizione rivisitata dallo stesso autore nel 1856.
De Quincey nel 1804 si stabilisce a Oxford per iscriversi al Worcester College ed è qui che incontrerà per la prima volta il suo grande amore… l’oppio.
Inizialmente prescritto come farmaco per il mal di testa, dal rimedio alla dipendenza il passo per lo scrittore sarà fin troppo breve: riuscirà, infatti, a liberarsene definitivamente solo da sessantenne. Vero è, però, che la sua croce sarà anche la sua delizia, dal momento che le Confessioni saranno il suo ineguagliato masterpiece: si tratta della narrazione della parabola umana e artistica del suo autore nella prima metà dell’Ottocento, corredata da divagazioni, introspezioni, curiosità, aneddoti di cronaca e di costume e perfino notazioni mediche.
Nel testo in questione, De Quincey si lascia spesso andare ai ricordi della fanciullezza e alle citazioni colte derivanti dagli studi di latino, greco e francese, ma al centro della narrazione, protagonista resta sempre lui – l’oppio – amato e insieme odiato perché se da una parte gli ha consentito di provare sensazioni inedite e di raggiungere sensazioni, seppur illusorie, di estrema libertà spirituale; dall’altra lo ha reso schiavo, occupando il posto principale se non addirittura unico, di tutte le preoccupazioni e gli obiettivi della sua esistenza.
Le Confessioni di De Quincey furono tradotte nel 1860 in francese da Baudelaire e quasi un secolo dopo, nel 1962, trasposte in un film americano dal titolo omonimo, interpretato da Vincent Price.
Al giorno d’oggi rileggere quest’opera ci fa recuperare le radici di una certa letteratura romantica e ci fa compiere un viaggio attraverso la vecchia Inghilterra, mediato dall’anima inquieta di questo suo figlio ingiustamente dimenticato.
Il linguaggio che l’autore utilizza è tutt’altro che leggero, anzi, abbonda di descrizioni interiori, di narrazioni d’atmosfera, di inquietudini personali o indotte, fino a un farneticante e utopico ideale di liberazione attraverso il consumo di sostanze come l’oppio e il laudano. In un certo qual modo si tratta di un linguaggio liberato da quella “felicità portatile” acquistabile e disponibile sempre in tasca, che mira a indagare principalmente il tema del sogno: il sogno, infatti, inteso, come ideale estremo di libertà è il centro dell’opera.
Foto | James Archer, Public domain, da Wikimedia Commons