Che cos’è, in fondo, la poesia, se non la nudità dell’anima che tuttavia si mostra con le vesti della metafora o dei simbolismi… È nudo dunque, un poeta, ma solo per chi è in grado di afferrare le sue parole, di penetrarle e di farle in qualche modo proprie.
Di parole, Natale Fioretto nel suo Kecharitomenos, ne usa apparentemente poche, esprimendo il suo intimo con silenziosa eloquenza; la sua brevità – soprattutto nella prima parte di questa pubblicazione di poesie – colora le pagine bianche accarezzando corde private e conducendoci in stagioni autunnali del cuore, dove il suono malinconico di foglie cadute invita all’introspezione.
In schegge e senza ombra – sussurra Fioretto – Disperso. E le profuma, le pagine, con antiche essenze di nardo, con piante aromatiche e fiori, a lenire il dolore.
Questo piccolo libro dall’elegante copertina, ti insinua sensazioni astratte dunque, meste e confuse reminiscenze; nondimeno è proprio questa incapacità del lettore di tradurre ciò che “sente” mentre legge, a decretare la vittoria del poeta, in grado di farsi seguire in un mondo solo suo senza tuttavia mai suscitare indifferenza.
Continuando a viaggiare nel suo intimo, si ascoltano lingue antiche o straniere, si raggiungono luoghi suggestivi con castelli sul mare (Sévera), montagne solitarie (Soratte), promontori di dune citate nell’Odissea (Eea), isole pregne di miti e leggende (la Sardegna), e si mescola – ma con delicatezza – la vita e la morte con lo Sheol, S’Acabadora, o le porte del regno degli inferi del Monte Soratte.
Nella terza ed ultima parte del libro, accompagnano i versi di Natale Fioretto gli ideogrammi giapponesi di Junko Fujita, azzeccato connubio con lo stile delle poesie.
Kecharitomenos, in greco “pieno di grazia”, non poteva essere che il giusto titolo per queste 40 pagine alle quali abbandonarsi, in un vibrare dell’anima che non conosce quiete e duole.
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