La definizione, apparsa sul quotidiano La Stampa nel 1910, è del critico Giuseppe Antonio Borgese e ammesso e non concesso che volesse essere sfavorevole, secondo me è molto azzeccata: dicesi poesia crepuscolare una poesia “di spegnimento”, dai toni tenui e smorzati come quelli, appunto, del crepuscolo, specie se raffrontato con il limpido mattino rappresentato da Dante e Petrarca, il mezzogiorno di Ariosto e Tasso, il primo pomeriggio dell’Alfieri e il vespro scandito dai versi di Foscolo e Leopardi. Dopo di loro, a quanto pare, solo un “mite e lunghissimo crepuscolo”. Per la prima volta, quindi, ecco una corrente letteraria i cui esponenti non sono legati da chissà quali regole poetiche, ma accomunati semplicemente dal fatto di parlare di “piccole cose” con toni malinconici, del tutto opposti alla poesia di tipo trionfalistico e sublime. Ebbene il “nostro” Guido Gozzano appartiene proprio a questi poeti qua.
Ritratti in seppia
Possono definirsi così le liriche di Gozzano, che spesso somigliano a quadri, che tratteggiano la fisicità ma anche la personalità di qualcuno, almeno quella che è percepibile da gesti esteriori, dagli atteggiamenti. Sono pennellate con colori tenui, le sue, appena accennate, i toni mesti, quasi dimessi, anche se in realtà – lo sappiamo – sono tutt’altro, perché la grandezza del poeta è proprio trovare l’universale partendo dal particolare. L’esordio, dopo qualche pubblicazione sui quotidiani, è affidato alla raccolta di liriche La via del rifugio (1907) in cui le versioni delle poesie inserite sono un po’ diverse dalle originali: più intime e meno decadenti nelle atmosfere, più colloquiali e meno trionfalistiche nel linguaggio e nel verseggio. I sentimenti umani trattati sono meno mondani, meno esposti, ma più personali, interiori, perché il poeta non è più un eroe, ma semplicemente un uomo qualsiasi.
The sound of silence
Simon and Garfunkel non me ne vogliano, ma più leggo le poesie di Gozzano per preparare questo articolo, più mi rendo conto che quello che fanno riecheggiare è proprio il suono del silenzio.
Con la sua seconda raccolta, I Colloqui (1911) a soli 27 anni traccia già un bilancio della sua vita, e ne ha ben donde dal momento che morirà appena cinque anni dopo. Il rimpianto, il tempo che passa senza che quasi ce ne accorgiamo, la giovinezza vissuta come una vecchiaia perché sono concetti erroneamente attribuiti al corpo che dovrebbero essere legati, invece, allo spirito: questi i temi di una raccolta che brama all’oblio e allo straniamento dall’esistenza. L’elemento fortemente autobiografico che pervade questo lavoro rende necessario che le poesie vengano lette nell’ordine in cui sono presentate, all’interno delle tre sezioni che compongono l’opera: Il giovenile errore, Alle soglie, Il reduce.
La prosa, tra favole e sceneggiatura
Forse non tutti lo sanno, ma Guido Gozzano scrisse anche in prosa, esattamente delle novelle per bambini – in una parola favole – raccolte in I tre talismani, e addirittura un soggetto cinematografico dal titolo San Francesco. Ciò dimostra ancora una volta la grandezza del poeta che è tale perché sa parlare al piccolo, e perché sa parlare anche utilizzando linguaggi nuovi, magari criptici, o comunque diversi, com’era all’epoca il cinema. All’industria cinematografica Gozzano guarda con un misto tra snobismo, curiosità e l’atteggiamento disincantato di chi è stato deluso più di una volta da quello a cui si è interessato. La scelta religiosa del soggetto, infine, si fa risalire sia a una “moda” sua contemporanea di rileggere figure storiche di un certo rilievo, al misticismo, ma è anche dettata dalla popolarità del Santo che ben si connetteva con la popolarità che avrebbe raggiunto l mezzo del cinematografo, perché è così che si chiamava allora.
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