Da oggi è in libreria Dal Vesuvio alla steppa. Il teatro di Eduardo in russo scritto da Natale Fioretto. Il breve saggio si rivolge principalmente ai traduttori, professionisti così importanti per la letteratura mondiale, spesso confinati all'ombra dello scrittore e si concentra sulle tecniche messe in campo dal traduttore per trasferire senza troppi sconvolgimenti e “tradimenti” un testo da un ambito culturale a un altro.
Abbiamo rivolto alcune domande al professor Fioretto per entrare un po’ più nell’argomento specifico del saggio.
Qual è il percorso che porta dal Vesuvio alla steppa?
Come spesso capita in casi del genere il primo sentiero è del tutto casuale. Tempo fa leggevo del grande successo che nell’allora Unione Sovietica aveva riscosso l’intera opera di Eduardo De Filippo e questo ha rappresentato il punto di partenza. Il passo successivo è stato dedicare attenzione a quella che a mio parere è la più intensa delle opere eduardiane e cioè Natale in casa Cupiello. A questo punto il salto dal simbolo di Napoli per antonomasia: il Vesuvio, alle steppe russe è presto fatto. Vorrei aggiungere che il Vesuvio è da sempre stato il “mio” posto speciale e che quindi non è stato difficile vederlo emergere oltre il mio personale orizzonte sensibile.
Hai detto che l’opera di Eduardo ha riscosso grande successo nell’allora Unione Sovietica. Come mai, secondo te? È ancora così nella Russia di oggi?
Il tema dell’attenzione sociale e dell’attenzione alle masse ha fatto indubbiamente presa nell’intelligenzia sovietica. Nella Russia attuale si bada più al valore universale dell’opera del commediografo italiano. La condizione umana è svincolata dalle ideologie e per quanto oggi in Russia il periodo sovietico venga velato e aspramente criticato è impossibile sul fronte culturale operare delle dissennate censure e abbandonare ciò che in un passato recente ha avuto ampio seguito.
Leggendo il tuo testo ho notato che, naturalmente, ci sono delle difficoltà oggettive nel dire in russo quel che Eduardo diceva in italiano e, in particolare, in napoletano. Il presepe è un esempio…
La vexata quaestio della traduzione è sempre in agguato: tradurre è tradire. Quando parliamo di difficoltà queste non emergono dal fatto che il russo e il napoletano siano due sistemi linguistici tanto lontani da apparire inconciliabili. Si potrebbe dire lo stesso fra italiano e napoletano, senza percorrere migliaia di chilometri. Non tutto è stato fatto salvo nella traduzione, questo è ovvio. Anzi, la traduttrice russa ha operato frequentemente dei tagli, dei ricami, delle creazioni ardite per mettere il lettore russo in condizioni di comprendere l’originale napoletano. Il grande problema alligna non tanto nella distanza fra le due lingue, quanto piuttosto nella diversità culturale. Il presepe appartiene alla cultura cattolica e non conosce un corrispettivo fedele nella Russia ortodossa: e già questo la dice lunga sulla difficoltà di rendere non solo e non tanto la singola espressione. Infatti ogni sistema comunicativo ha la capacità di creare vocaboli e di accoglierne di nuovi per esprimere realtà estranee alla propria cultura. Un esempio: in tutto il mondo è conosciuto il termine pasta, ma chi realmente riesce a capire cosa significhi per noi italiani prepararci e gustare un piatto di pasta? Questa è cultura, gastronomica quanto vogliamo, ma cultura. Potrei fare io una domanda dicendo: “Il lettore russo ha compreso cos’è un presepe?”. E la risposta dovrebbe essere: “No, non ne sono completamente sicuro, ma sono certo che al lettore russo non sfugge il dramma umano di Luca Cupiello”. Per dirla in breve, probabilmente il particolare è stato sacrificato dalla traduzione, che però ha fatto salvo il nucleo dell’opera edoardiana.
Nel suo libro Il mestiere di leggere, Rogelio Guedea afferma che leggere lo stesso libro in più lingue è come leggere un libro sempre nuovo. Qual è il limite che un traduttore deve assumere tra rispetto della lingua di partenza e dello stile dell’autore ed esigenze della lingua di arrivo?
Sono pienamente d’accordo con quanto sostenuto da Guedea ed è indubbio che una traduzione prima ancora che tradimento sia una ricreazione. La questione è tener fede all’opera nel suo insieme, conservandone i tratti principali, magari sacrificando, se è proprio necessario, gli elementi secondari. Se io come traduttore mi impegnassi, ad esempio, a voler trasmettere al lettore russo tutto quello che rappresenta il presepe per una famiglia napoletana senza considerare il dramma eterno delle dinamiche familiare che Natale in casa Cupiello mette in scena avrei sicuramente fallito nel mio intento.
Hai tradotto in italiano le poesie brasiliane di Mario Quintana, i Racconti popolari giapponesi di Adriana Lisboa e ora ti soffermi su alcuni aspetti della traduzione in russo di un’opera teatrale. Come ti muovi tra questi generi diversi?
Tradurre poesia, prosa o teatro non è affatto la stessa operazione è se è vero che esiste una tecnica della traduzione è altrettanto vero che bisogna adattarla volta per volta all’aspetto formale delle opere. Non potrei dire in assoluto che tradurre teatro sia più facile che tradurre poesia, anche se ne sono convinto. In tutti i casi – teatro, poesia, prosa – il ruolo del traduttore, in questo caso il mio, è quello di far nascere nella cultura d’arrivo un testo che ha significato e valenza culturale nella lingua di partenza. Personalmente ho trovato molto più difficile tradurre le poesie di Mario Quintana in italiano, pur partendo da una lingua, il portoghese, molto più vicina all’italiano di quanto non lo sia il russo. Al tempo stesso, visto che a me piace molto soffermarmi sull’idea della creazione-ricreazione, la poesia mi ha dato strumenti di indubbio fascino per poter effettuare un’operazione linguistica di valore. Non credo che si possa parlare di una traduzione trasparente; messo in controluce il testo di arrivo mostra lo sguardo attento e ammirato del traduttore.
Foto | © Getty Images (per la foto di Eduardo De Filippo) – Simone Di Camillo (per la foto di Natale Fioretto)
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