Il tuo browser non supporta JavaScript!
Vai al contenuto della pagina

Enrico Testa racconta Le faticose attese: un dialogo sulla poesia

Enrico Testa racconta Le faticose attese: un dialogo sulla poesia Enrico Testa racconta Le faticose attese: un dialogo sulla poesia
Enrico Testa racconta Le faticose attese: un dialogo sulla poesia

Le faticose attese, libro d’esordio del poeta genovese Enrico Testa, torna, grazie a Graphe.it edizioni (nella collana “Le mancuspie” diretta da Antonio Bux), a sollecitare o, meglio ancora, a interloquire dopo quasi quarant’anni con il lettore.

Poesie che ci appaiono a tratti come giochi di specchi, di sottili rovesciamenti, di scavi dove la realtà, il dipanarsi del quotidiano (piccolo o grande, infinitesimale o immane, ricordiamolo, ci riguarda sempre e comunque da vicino) riemergono alla superficie del tempo e della coscienza, fuggendo strenuamente da quell’oblio cui sembravano, in un modo o nell’altro, condannati. Non solo, dunque, un salvataggio dell’istante che, volenti o nolenti, non smette mai di naufragare sotto i nostri occhi, dentro il mare oscuro e senza nome dei millenni, ma anche un serrato confronto con l’esistenza umana che Enrico Testa, da fine e ponderato giocoliere qual è, affronta briosamente attraverso diversi registri linguistici. Abilità certo non comune che, già nel 1988, suscitò l’entusiasmo di un maestro come Giorgio Caproni.

Enrico Testa: poesia, memoria e il ritorno di Le faticose attese

In un’epoca ossessionata dal politicamente corretto e contrassegnata dai corsi di scrittura creativa, mi vengono in mente come un flash arroventato le parole di Richard Wagner che consigliava di non appartenere a nessuna scuola. Soprattutto – sottolineava forse un po’ beffardamente – non alla sua. Cosa ne pensa? Qual è la sua posizione?
La poesia che ha a che fare con il politicamente corretto così come con troppo esplicite intenzioni programmatiche o ideologiche, mi suscita una certa diffidenza. Al pari di quella che aspira a inserirsi in “scuole” o far parte di gruppi. Si scrive da soli, tutt’al più in compagnia dei propri fantasmi e delle proprie ossessioni. Certo, questo spesso si paga con una certa “invisibilità”. Ma che importa? I versi, se nati da una necessità interiore, hanno altri tempi e un altro tempo. Per quanto si cerchi una sintonia con lo sconosciuto lettore contemporaneo nella speranza che questi trovi nei versi che sta leggendo qualcosa che prima avvertiva nascostamente e che il testo gli porta alla luce, si scrive per chi non c’è più e, forse, per chi verrà dopo. La scrittura letteraria, credo, è l’unica forma, parziale minuscola fallace quanto si vuole, di risarcimento di vite perdute e dimenticate. E tutto questo ha ben poco a che fare con corsi di scrittura creativa, gruppi o scuole poetiche e loro aggregazioni regionali. O si ha un patrimonio di ricordi o niente (la prima funzione della poesia è, senza tanti giri di parole, la memoria). E, rovistando nella soffitta della memoria, ci si perde e l’io diventa quasi estraneo a sé stesso. Vicino agli scomparsi e a chi, dei viventi, gli capita d’incontrare – d’amare o d’odiare -, e, nello stesso tempo, lontano dalla figura che ha avuto la sorte d’interpretare sulla scena del reale.

La storia della letteratura e la critica letteraria si fondano sui fatti o sulle omissioni? Sono una somma di giudizi o di pregiudizi?

Sono entrambe istituzioni estremamente fragili. Intendono stabilire tavole di valori e canoni ma sono preda del tempo e lavorano in combutta con l’oblio. Dipendono dal gusto di chi regge le sorti di manuali e antologie e quindi da preferenze inevitabilmente personali. Alcuni dei cosiddetti “minori” secondo giudizi del passato appaiono oggi più affascinanti e ricchi dei presunti “maggiori”. E lo squilibrio si fa tanto più forte quanto più ci s’avvicina alla contemporaneità. Dove a farla da padroni sono relazioni personali, appartenenza a gruppi, rispondenza ai gusti del momento, affiliazioni di vario genere. E, quindi, pregiudizi più che articolati giudizi fondati sull’effettiva lettura dei testi. Ma non c’è da rammaricarsene più di tanto. In fondo, storia e critica letteraria sono interessanti per i loro “buchi”: invogliano a dedicarsi ai dimenticati o ai trascurati perché non rispondenti alle tendenze dominanti al loro (e al nostro) tempo. È una specie di legge comune anche ad altri campi. La storia del pensiero linguistico, ad esempio, è ricca di personaggi e teorie di grande originalità, spessore e fascino, che sono stati però accantonati perché sviluppavano idee che non erano in sintonia con le posizioni che erano riuscite a conquistare la scena. E tutto questo è una spinta alla curiosità e alla ricerca. Vale la pena ricordare questi versi dell’ultimo Montale:
La verità è nei rosicchiamenti
delle tarme e dei topi,
nella polvere ch’esce da cassettoni ammuffiti
e nelle croste dei “grana” stagionati.
La verità è la sedimentazione, il ristagno,
non la logorrea schifa dei dialettici.
È una tela di ragno, può durare,
non distruggetela con la scopa.
In fondo, il compito del lettore, per me, ideale, è proprio questo: visitare con discrezione le pagine degli autori consegnati dalle “autorità” critiche al “ristagno” e alla “sedimentazione” in fondo agli scaffali della memoria.

Secondo J. Brodskij in Fuga da Bisanzio il canto è una forma di disobbedienza linguistica e le sue note gettano un’ombra di dubbio su ben altro che un concreto sistema politico: mettono in discussione tutto l’ordine esistenziale. È d’accordo anche lei con il grande poeta russo?
Certo, una messa in discussione sia delle figure stereotipate del linguaggio della cosiddetta “comunicazione” e delle sue facili formule declinate – più spesso di quanto appaia – anche in poesia, sia dell’esistenza tutta. Di cui si potrà dire sì che è un dono ma anche un insulto. Con un paradosso: se c’è un senso nella vita è quello di un insulto che, quando non ci viene più rivolto, pateticamente rimpiangiamo. Che la vita possa essere vista come un insulto l’ha scritto, un bel po’ di anni fa, un filosofo oggi non più molto in voga, Aldo Giorgio Gargani. Ma, senza tanti giri speculativi, per capirlo basta guardare a quanto ci sta intorno. Viene da pensare che non siano senza fondamento, storico e ontologico, le parole leopardiane sul “brutto / Poter che, ascoso, a comun danno impera”. Alcuni esseri umani – e nessuno può pensare di essere escluso da questa possibilità – vivono condizioni di tale orrore e distruzione che vanno al di là del peggior incubo. Perché l’incubo finisce risvegliandosi, il dolore morendo. Eppure, anche se la poesia non può non dar segno di questo, prevale la rimozione: si ama piuttosto intrattenersi sulla riscoperta della meraviglia, su restauri estetizzanti del mito e sulla bontà del non sapere. Mentre per me la poesia è – ma non dico nulla di originale - affondare lo sguardo nello scandalo dello stare al mondo e scuotere via come un manto ingannevole quei termini – eufemismi, cliché, modismi, parole d’ordine del sistema culturale – che vogliono, interessatamente, nasconderlo. Sarò attardato ma scrivere è, a parer mio, provare a vedere con occhi bene aperti ciò che c’è e quanto gli sta nascosto dietro e, insieme, quello che è stato, quello che non c’è e pure quello che potrebbe essere. Una stereoscopia scritta, uno strabismo che rischia la vertigine. Altrimenti si finisce con l’essere parte della cultura della cancellazione, che vuol farci dimenticare storia e memoria e tutto appiattisce e omologa in un deserto di asterischi e di censure.

Quali poeti del passato l’hanno maggiormente influenzata? Quale incontro, se c’è stato, si è rivelato fatale e imprevisto come un colpo di fulmine?

Sono tanti i poeti che mi hanno influenzato. Nel loro insieme, li chiamerei piuttosto una Società di Mutuo Soccorso che riesce a dare conforto e a proporre dubbi e questioni. Innanzitutto, Pascoli e poi l’ultimo Montale, Caproni e il Sanguineti più affabile dei viaggi e delle cartoline postali. Ma, andando a ritroso, non avrei scritto quello che ho scritto senza i presocratici, Sofocle, Lucrezio e l’Ovidio dei Tristia e il lascito di poeti come Thomas Hardy o Seamus Heaney o delle narratrici inglesi dell’Ottocento. E poi Paul Celan: un poeta che ho letto e ammirato sin dall’antologia Mondadori apparsa nel 1976, quando avevo vent’anni. Differentemente da quanto si ritiene (ma senza dubbio mi sbaglierò) non mi è mai sembrato un poeta ‘ermetico’. Difficile, certo e, alla fine, sull’orlo della frantumazione della parola e affacciato sul baratro del silenzio. L’ermetismo mi sembra tutt’altra cosa. Vi è in lui piuttosto la congiunzione rarissima di angoscia ed esattezza. Ma non ci sono solo i poeti: negli ultimi tempi mi hanno insegnato molto i libri di storici, antropologi e linguisti. Appunto, una Società di Mutuo Soccorso in pasoliniana confusione degli stili. E non una ristretta selezione di testi da delibare come vini o liquori millesimati o barricati. Nel rapporto con gli altri poeti s’inserisce anche la mia, anche se limitata, attività di traduttore. Penso che la traduzione sia il genere più nobile della scrittura. Confrontarsi, in uno spazio di nessuno, con un testo e una lingua estranee, è un’esperienza che muta chi la vive. Mi è successo con Dylan Thomas, con Philip Larkin e soprattutto, più recentemente, con il Filottete di Sofocle.

Ci parli nel dettaglio di Le faticose attese, la raccolta che segnò il suo debutto di poeta e che, oggi, a distanza di quasi quarant’anni, viene riproposta al pubblico da Graphe.it edizioni nella collana Le mancuspie diretta da Antonio Bux. Ci dica della sua genesi, della linfa che la innerva, della voce destinata a salire dal profondo come un’acqua sotterranea chiamata ad attraversare gli strati dell’esistenza, le faglie segrete del vivere, gli smottamenti del sentire e del tempo, per puntare poi caparbiamente - così almeno ci sembra ogni volta che rileggiamo questa prima raccolta - alla luce. All’epifania finale.

Rispetto a quanto ho detto rispondendo alle precedenti domande, con Le faticose attese il discorso cambia. È un libretto della giovinezza (anche se di una giovinezza un po’ attardata) con le passioni e le paure di quegli anni. Quando riuscii a pubblicarlo come un semplice omaggio d’amore, pensavo che sarebbe rimasta la mia unica raccolta di versi. Non avevo alcuna intenzione di proseguire a scrivere poesie né tanto meno di fare il “poeta”. Le “grandi questioni” forse c’erano già ma tenute sullo sfondo o eseguite con un ritmo più lieve di quello che si definì in seguito. Quello che mi sembra sia rimasto costante – ma è sempre un po’ ridicolo fare il critico di sé stessi – è il tono di fondo, che alla corda tragica intervalla momenti d’ironia e alla vicinanza al discorso comune risponde con un controcanto di suoni, piccole metafore e rime: quanto spinse Caproni a parlare – con grande generosità - di “brio inventivo”.
 

L'autore: Giorgio Podestà
Giorgio Podestà Giorgio Podestà, nato in Emilia, si occupa di moda, traduzioni e interpretariato. Dopo la laurea in Lettere Moderne e un diploma presso un istituto di moda e design, ha intrapreso la carriera di fashion blogger, interprete simultaneo e traduttore (tra gli scrittori tradotti in lingua inglese anche il Premio Strega Ferdinando Camon). Appassionato di letteratura italiana, inglese e americana del secolo scorso, ha sempre scritto poesie, annotandole su quadernini che conserva gelosamente. Con Graphe.it ha pubblicato la raccolta poetica “E fu il giorno in cui abbaiarono rose al tuo sguardo”, i saggi “Breve storia dei capelli rossi” e “Come echi sull'acqua. Note a margine di un lettore appassionato” e ha curato la traduzione del saggio “Cristianesimo e poesia” di Dana Gioia.

Guarda tutti gli articoli scritti da Giorgio Podestà

Le faticose attese

di Enrico Testa

editore: Graphe.it

pagine: 76

Un'opera prima che non invecchia: un viaggio poetico intenso e introspettivo, dove la semplicità dei versi cela una profondità sorprendente.

Inserisci un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati con un asterisco*
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.

Inserire il codice per il download.

Inserire il codice per attivare il servizio.