Conosco Antonella Serrenti da molto tempo. Abbiamo condiviso un libro legato alle tradizioni e alla cultura della nostra isola, e successivamente ho avuto la fortuna di veder nascere e crescere qualcos’altro che le appartiene intimamente e che vede la luce in questi giorni: si tratta del suo Una giornata dall’aria antica, edito dalla Graphe.it di Perugia, un libro che guarda alla strage di Nassiriya (12 novembre 2003) con occhi insoliti…
Quattro chiacchiere con Antonella Serrenti
Come definiresti questa raccolta di racconti e qual è il filo conduttore?
Hai detto bene parlando di «occhi insoliti»… questo è un libro fatto proprio di sguardi, perché dietro stragi come quella che tu hai citato, troppe sono le persone coinvolte, in male e in bene, troppi i punti di vista e differenti le reazioni o le emozioni. Resta tuttavia un fatto: in quella terribile giornata persero la vita diciannove italiani e nove iracheni. Questo libro è per me la volontà di cancellare, una volta per tutte, quell’impronta che ha lasciato sul cuore la paura dell’attesa. L’amore per un figlio è irrazionale e il pensiero di saperlo ferito o peggio ancora, di averlo perso è devastante. Preferisco tenere ben saldo in me ciò che ho trovato all’aeroporto di Elmas una mattina del febbraio 2004, quando ho stretto amicizie momentanee con persone sconosciute. Ho diviso sorrisi e tazzine di caffè, e ho condiviso quel dolore al petto ancora latente, ma in quel momento esorcizzato dall’attesa di un abbraccio.
Ma, a proposito di sguardi, vedere il faccino di un bimbo che non riconosce, dopo sei lunghi mesi di lontananza, il viso del suo papà, mi ha fatto capire che non si può programmare ciò che è nelle mani del destino. E allora bisogna non lasciarsi sfuggire la grandezza di quel sollievo – anche se quasi colpevole – che proprio i graziati dal destino hanno avuto la fortuna di provare riabbracciando figli, padri, fratelli, mariti e amici. Tra questi, ci sono anche io.
In quel triste giorno, il 12 novembre 2003, a Nassiriya, è stata scritta una terribile pagina di storia. Con questo tuo libro, ne hai scritto ancora ma in modo differente e molto particolare: che cosa vorresti giungesse, al cuore di chi ti leggerà? Quale messaggio desideri mandare?
Certamente, al cuore di chi mi leggerà, arriverà il sollievo di una madre che ha potuto riabbracciare il proprio figlio, ma anche la sofferenza di quelle anime-madri che invece il calore di quell’abbraccio lo vivranno solo nella memoria. Anche loro, quelle che io chiamo le madri orfane, dovrebbero essere menzionate in questa pagina di storia, così come le donne soldato che hanno inseguito, con audacia e coraggio, l’orgoglio di indossare una divisa. E che dire delle ragazze adolescenti che troppo presto hanno perduto il loro padre e che con lui non potranno condividere lo splendore del diventare donne e poi madri…
Sguardi, tanti sguardi. Sguardi diretti anche alla giovane afgana che magari un padre ce l’ha ancora ma viene da lui punita per aver partorito una femmina.
Hai affrontato il tema delle missioni di pace e dei conflitti, mettendoti nei panni di molte categorie di persone: dal politico al soldato, dal bambino afgano alla figlia di un militare, dalla madre angosciata a un nonno stanco di inutili guerre… Tante sono le voci di questa raccolta, ma quale di queste ti ha creato difficoltà maggiori e non voleva saperne di venir fuori?
A dire il vero, chi non voleva saperne di venir fuori, sono stati due bambini, Nicola e Zarif. Eppure, dopo tante difficoltà incontrate nel delinearli, improvvisamente hanno preso vita e sono balzati fuori dalla pagina, tanto che per un attimo ho pensato volessero scambiarsi i giochi, incapaci di creare differenze.
Nicola, figlio di un ufficiale della Brigata Sassari, gioca con il Nintendo per sfogare la rabbia provata contro suo padre in partenza per l’Afghanistan. Non capisce, il bambino, perché definiscano missioni di pace questi «viaggi», quando poi i soldati italiani si devono difendere dai razzi e dai kalashnikov dei talebani.
Zarif, figlio di un talebano, gioca invece con la carcassa di una capra calcificata dal sole, impedisce a sua madre di immolarsi, vende le sue sorelle-bambine ai signori della guerra, e «studia» la jihad per vendicare la morte del padre avvenuta per mano dei «Senza Dio» italiani. Due bambini di undici anni, che ho abbracciato idealmente e ai quali ho asciugato le lacrime con lo stesso fazzoletto.
Nel tuo libro, si legge: «Non si allontana più, quella giornata. Era la mattina del 12 novembre dell’anno 2003, gli alberi ormai spogli piangevano le loro foglie e l’Italia i suoi figli, morti lontani dalla loro terra, in nome di una parola venduta a caro prezzo: pace! È ancora là quella mattina…» C’è qualcosa che da allora ti è rimasta per sempre addosso e non sei certa di essere riuscita a esternare, ne “Una giornata dall’aria antica”?
Sì, c’è ancora qualcosa che mi resterà sempre addosso. Non l’ho mai confessato a nessuno, forse per pudore, non lo so. Quel 12 novembre mi aleggia ancora intorno, dopo tredici anni, come un fantasma. Ne ricordo ogni particolare e ogni minuto, ma non mi abbandona l’immagine di un amichetto di mio figlio che giocava sull’uscio della sua casa, seduto su bassi gradini.
Diventati uomini, lui e mio figlio hanno indossato la stessa divisa, ma quel bambino non è più tornato a casa. È parte di quel triste elenco citato prima, ma anche delle mie mutilazioni.
Per concludere, una domanda che ci aiuta a conoscerti meglio: che cosa rappresenta per te, scrivere?
Prima di rispondere alla domanda, vorrei dire che non mi sono mai presa sul serio, e non ho mai scritto con l’idea di pubblicare, ma la Graphe.it Edizioni mi ha voluto regalare questa carezza sul cuore, che ho ricevuto con gratitudine.
Per quanto mi riguarda, sono sempre stata una grande lettrice e spero di non dover mai smettere di leggere per nessuna ragione al mondo! Un libro è da sempre il mio rimedio ai momenti difficili, il mio amico durante quelli facili. Chi legge, spesso finisce per innamorarsi anche di una pagina bianca, e finisce con il riempirla di parole: ecco, leggere mi ha spinta a scrivere.
Non so se sia corretto dire che mi sento debitrice alla scrittura, però devo dire che molte volte mi ha salvato da periodi incerti, da giornate buie, e mi ha anche colorato quelle più vuote scrollandomi di dosso momenti di indolenza dovuti a malcontento. Secondo me, scrivere, rende il cuore, la mente e la vita più profondi, per questo ho deciso di farne la mia compagna nella vecchiaia promettendole fedeltà.
C’è qualcosa che non ti abbiamo domandato ma che vorresti dire ai nostri lettori?
A dire il vero c’è qualcosa che non mi avete domandato. Per esempio, quanto è stato intenso il piacere dei sensi quando ho potuto per la prima volta sfogliare con il dito (così come facevo quando ero bambina), le pagine del mio libro. Ma avete fatto bene a non chiedermelo: il mio carattere riservato e molto isolano non mi avrebbe mai permesso di rivelare a nessuno di questa mia profonda e intima emozione!
La foto di Antonella Serrenti è di Fabio Mazza
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