Il suo lungo cammino nel mondo della poesia iniziò nel 1955 e fu – fin da quel lontano esordio presso Vallecchi con Orizzonte e tu – un viaggio in solitaria. Rossana Ombres (1931-2009) non ebbe, va detto subito a scanso di equivoci, mai maestri o stelle polari.
Sola al timone di quella sua fantasmagorica imbarcazione seguiva impavidamente, senza mai smarrirsi, vie d’acqua che ai più sembravano lontane. Impraticabili. Forse folli, ma che al poeta apparivano limpide come fossero intagliate nel cristallo. Una navigazione di volta in volta profonda, bizzarra, colta, a tratti incommensurabilmente grottesca e, in più di un caso, dura e tagliente come il diamante.
Del resto – impossibile dimenticarlo – questo è il viaggio di qualcuno che ama sostare in porti surreali dove la polvere dei millenni si invortica e rivela, per un istante che sa di eternità, il paesaggio sottostante. Le città sepolte. I miti e le leggende che hanno accompagnato l’umanità lungo la sua strada (una strada gravida di sciagure. Di canti funebri sotto un cielo spesso e volentieri oscuro).
Ed è proprio qui in questo misterioso crocevia, tra misticismo e irrisione, ironia e travaglio, che il poeta mette a nudo non il passato bensì il presente. Il cuore umano tagliato drammaticamente in due dall’ombra e dalla luce. L’anima, senza più paludamenti, chiamata a mostrarsi deforme come un vecchio ferro arrugginito oppure a marciare davanti ai nostri occhi miracolosamente diafana e pura come un fiocco di neve.
Una visione bifronte, vasta, sotterranea, che sembra toccare il suo punto più alto nel Bestiario d’amore (ripubblicato in questi giorni da Graphe.it edizioni nella collana “Le mancuspie” diretta da Antonio Bux) che nel 1974, lo ricordiamo soltanto en passant, vinse il premio Viareggio per la poesia. Un bestiario d’amore (preparatevi) non privo di ferocia.
Qui di seguito un breve assaggio del Bestiario d’amore.
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Sogno ansioso per viole e sedioline rococò
Un’isola fu, inquieta d’acque
brulicanti numi di prodigi minimi
e di alghe rosse
riunite in ramages per tutta la partitura.
Isotta vi appare
con la penna di Ulrico, riformatore di canti:
le care e dilettose sembianze
allo scadere della luce
raccolsero improbabili lapsi
ancora umidi di trafugamenti lacustri.
Non c’è nave per chi cerca un nuovo graal:
viaggiatore se passerai da Ufenau
continua il tuo pellegrinaggio a piedi
e fermati in preghiera nel belvedere
di viole e sedioline rococò.
Coro dei monaci cantori
Noi non sappiamo nulla
siamo con le nostre pietre che ci ritraggono
santificati di un magro chiarore
sul fondo dell’Abbazia. Fiori
furono conservati per noi in grosse campane di vetro
casomai ci cogliesse desiderio d’odori.
Qualcuno di noi tanto tempo fa
scrisse parole appassionate
che fecero sanguinare le pergamene
qualcun altro con più vivo colore
miniò note festose
(che s’ingravidarono subito delle parole
come animalesse focose di pianura).
Ne venne un canto in lode della morte.
Del mondo non sappiamo nulla.
Crediamo che vi siano grossi pavoni bianchi
appollaiati su piccoli alberi a palla
che si mangi e si beva abbondantemente
per copulare dopo il tramonto. […]