Il tuo browser non supporta JavaScript!
Vai al contenuto della pagina

Laura De Luca racconta Ma l’amore no: voce, perdita e memoria

Laura De Luca racconta Ma l’amore no: voce, perdita e memoria Laura De Luca racconta Ma l’amore no: voce, perdita e memoria
Laura De Luca racconta Ma l’amore no: voce, perdita e memoria

Con Ma l’amore no, Laura De Luca affronta il dolore della perdita materna attraverso una forma narrativa intima e originale: un dialogo tra la “Grande” e la “Piccola”, due voci interiori che cercano di ricomporre i frammenti di un’esistenza segnata dal lutto. Giornalista e autrice radiofonica, De Luca porta nel romanzo la sua sensibilità per la parola e per il suono, ma lo fa scegliendo il silenzio come mezzo di comunicazione più eloquente. Ne nasce un libro potente e sincero, capace di interrogare il lettore su cosa significhi davvero diventare adulti, perdere e ritrovarsi. In questa intervista, l’autrice ci accompagna dentro le pieghe più profonde della sua scrittura e condivide con lucidità e tenerezza le riflessioni che hanno dato origine al romanzo.

“Ma l’amore no”: un dialogo interiore tra voce, memoria e assenza

In Breve storia filosofica della voce esploravi la voce come strumento e come pensiero che si fa suono. In Ma l’amore no, la voce diventa il mezzo per un dialogo interiore profondo e doloroso. Come si è evoluto il tuo rapporto con la voce, dal saggio al romanzo?
Ho scoperto che le due voci protagoniste del romanzo (la mia di quando ero piccola e la mia di oggi) in realtà sono mute. E dunque ho avuto la conferma che per davvero possono esserci voci che non parlano pur restando eloquentissime, le famose “voci di dentro”. Nel mio lavoro alla radio, nelle lezioni a stagisti e colleghi giovani, infine in Breve storia filosofica della voce, ho parlato disinvoltamente (spesso facendo affidamento sulla mia voce!) del mistero e della bellezza del linguaggio parlato, di come riusciamo a farci ascoltare, del significato della trasmissione orale... In questo che tu chiami “romanzo” (Ma l’amore no) mi sono ritrovata (e me ne rendo conto solo adesso, forse proprio grazie a questa domanda) a usare due voci talmente profonde che in realtà… non hanno voce!

Ma l’amore no è costruito interamente come un dialogo tra la “Grande” e la “Piccola”. Quanto è stato naturale per te scegliere questa forma narrativa? È stata una scelta stilistica o un’esigenza interiore?
È stato un meccanismo automatico scattato all’indomani della morte di mia madre. Dovevo scaricare su qualcuno i sensi di colpa che provavo nei suoi confronti e non potevo che prendermela con me stessa. Che questo meccanismo sia diventato poi anche una scelta stilistica mi preoccupa un po’: dialogare con se stessi può essere benefico quando c’è la mediazione di un analista, di un confessore, di un amico... Quando dialoghiamo con noi stessi in perfetta solitudine rischiamo di cadere nel baratro del solipsismo e dunque dell’autoreferenzialità. Perciò avevo tanti dubbi a proporti la pubblicazione di questo testo… E sono passati parecchi anni perché finalmente arrivasse a vedere la luce. Fatto per il quale devo ringraziare il tuo incoraggiamento.

Nel libro si percepisce una tensione tra il bisogno di ricordare e la paura di dimenticare. Secondo te, scrivere è più un atto di conservazione o di trasformazione della memoria?
Entrambi. Almeno per me, almeno in questo caso. Conservare è necessario. Trasformare è una contaminazione inevitabile, forse un vizio, o un atto di pura mala fede: per darsi ragione degli errori, per ripensare a certe scelte, edulcorare le mancanze, insomma per perdonarsi. O cercare di.

Il dialogo tra la Grande e la Piccola attraversa epoche, ricordi e frammenti di vita familiare. Hai scritto pensando a un tempo preciso o volevi dare al testo un’atmosfera fuori dal tempo, quasi universale?
Magari essere riuscita a evocare l’universale. Torno al dubbio di cui sopra. Ho scritto per me, e chi legge avrà la prova che non posso né voglio nasconderlo. Ho scritto per egoismo, per disperazione, per smarrimento. Tutto questo è condivisibile? Consolerà qualcun altro, oltre a me? Lo spero. Ma è una speranza di seconda mano. L’impulso primario è stato quello di “conservare”, come dici tu, quel tempo preciso. Di scattare una fotografia.

Quanto della voce di tua madre è rimasto dentro di te? Ti capita di riconoscerti in lei, magari nel tono di una frase, in un’espressione o in un gesto?
Infinite volte mi capita. La rivedo in me quando mi specchio dimenticandomi di voler essere “me”: la mimica, una specie di “polvere” sulla mia faccia che non ha nulla a che vedere col make-up… Da bambina mi dicevano che assomigliavo a mio padre. Ora che sono “adulta” credo di assomigliare più a lei. Si vede che la maternità è una conquista tarda e molto lenta, davvero frutto di una gestazione di anni. Solo da vecchi possiamo diventare davvero “madri” di noi stessi, insomma generarci. Purtroppo questo avviene solo dopo che abbiamo perso chi ci ha materialmente generati. E allora assomigliare a loro diventa quasi un furto, un’appropriazione indebita, o una specie di contrappasso. Ritroverò lei nella mia vecchiaia. Mi ritroverò a essere lei, però senza che lei possa davvero tornare a vivere, ahimè…

La tua esperienza di autrice e regista radiofonica ha influenzato il modo in cui hai costruito questo romanzo, fatto interamente di voci? Possiamo considerarlo una sorta di pièce teatrale interiore?
Credo di sì, sottolineando “interiore”. Inizialmente avevo pensato di portare in scena questo testo. O almeno di portarlo “in voce”. Ricorderai che ti avevo proposto di inserire nel libro un QR code dal quale scaricare l’ascolto della conversazione. E avevo anche fatto un po’ di casting per cercare le due voci giuste. Quasi subito mi sono accorta, come dicevo prima, che queste voci non possono avere voce. Sono talmente profonde che non conoscono neppure l’aria, vengono da non so dove... Questo dialogo si può solo offrire a una lettura silenziosa. Almeno credo. Pièce interiore e lettura altrettanto interiore. Poi non escludo che potrebbe anche apparire all’orizzonte un regista talmente appassionato e coraggioso da convincermi del contrario.

Chi perde chi? Questa domanda è centrale nel tuo libro. Dopo aver scritto il romanzo, hai trovato una risposta?
Ovviamente no. Era la domanda che mi ero posta all’indomani della sua morte: avevo perso mia madre, o piuttosto lei aveva perso me, perché non ero stata capace di “accompagnarla”? E con me lei che cosa aveva perso? Una figlia oppure una madre? È questa sovversione dei ruoli e dei legami che la vita prima o poi ci presenta sempre, come un conto salato. In questo testo io ho provato a tornare bambina per cercare di sentirmi un po’ meno persa e un po’ meno perduta, illudendomi di poter essere ancora presa per mano. Purtroppo, soltanto da me stessa.
 

Ma l'amore no

di Laura De Luca

editore: Graphe.it

pagine: 132

Un dialogo intimo e doloroso con la madre perduta, per ricucire i fili di un'esistenza spezzata. Un romanzo che ci invita a confrontarci con le nostre ferite più profonde e a trovare la forza di guarire.

Inserisci un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati con un asterisco*
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.

Inserire il codice per il download.

Inserire il codice per attivare il servizio.