Ho sul tavolo tre libri, sono capitati insieme per caso: Dall’ergastolo di Luigi Podda, L’isola delle lepri di Anna Maria Falchi e Il pane carasau di Antonella Serrenti e Susanna Trossero. Sono proprio sul tavolo, quello della cucina, non sulla scrivania. Hanno in comune un’isola: la Sardegna. Li guardo con quel misto di ammirazione e diffidenza che da sempre ho verso le isole e in particolare verso la Sardegna, che a volte mi sembra un’isola senza il mare. Non amo le spiagge e ho sempre vissuto gli interni e la Sardegna è un entroterra interiore, qualcosa che attiene più all’anima che alla geografia, qualcosa che puoi comprendere appieno solo se sei nato lì, una saudade di una durezza impressionante, un territorio talmente bello e brullo e intricato e ripetuto da sembrare prigione di natura e di profumi. Mi sono sempre chiesto come fosse capace di trasformarsi in terra di grandi magie. Ricordo la meraviglia di un posto di una desolazione rurale infinita come Berchidda trasformato in palcoscenico naturale da un figlio tenace, quel Paolo Fresu trombettista jazz dal fiato d’oro. Ecco la musica è canto di sirene, la voce di Elena Ledda. È così mi viene in mente il pane che assieme al mirto è il profumo di un’isola davvero isolata. Il pane che leggo nel bel libro di Antonella Serrenti e Susanna Trossero, quel pane che è materia esclusiva di donne: loro lo fanno e solo di notte. Ma anche le sorelle grandi, Maria Bonaria e Menuccia, nella piccola isola dell’Asinara – L’isola delle lepri – raccontata da Anna Maria Falchi, aiutano la mamma a fare il pane. Non gli uomini, non i fratelli. Agli uomini il pane è compagno, nel mestiere errante del pastore e in qualsiasi altra attività nell’isola dura e amata: «Di tutti questi piatti come pure del loro pane che chiamano anche “carta da musica”, i nuoresi vanno molto orgogliosi. A noi barbaricini bastava avere in tasca un semplice coltello...», racconta Luigi Podda nel suo Dall’ergastolo.
Allora lo prendo questo pane piatto e sottile che altrove è difficile da comprendere e giro il libro, quello che lo racconta, Il pane carasau. Lo volto dall’altra parte perché è un libro strano: da un lato la storia, dall’altra le ricette. E mentre dalla storia imparo altri pezzetti dell’isola ignota, dalle ricette cerco il sapore di certe passeggiate sul Gennargentu, di certe escursioni spericolate alla ricerca di trote nel rio Mannu in un’isola dove metà dei fiumi hanno questo nome e metà della gente scuote la testa quando dici di essere lì per le trote. Poi sorridono. Ci mettono del tempo. Devono superare una diffidenza che arriva da lontano e sta sotto la pelle dell’isola. Solo allora entri nelle case ed è tripudio di porcetti cotti sulle braci e vino spillato dalle botti, pomeriggi passati a filosofare sul mondo davanti a un bicchiere sempre pieno di Monica, rosso dal nome di femmina e dalla meraviglia di velluto. Ecco, il libro, Il pane carasau, le autrici, donne anche loro per una storia di donne, di un’isola dove un’incredibile e inatteso matriarcato organizzava riti e sopravvivenza. Allora io questo sapore lo voglio comprendere. Perché anche quando sono andato a Santu Lussurgiu a cercare il Casizolu ho trovato non solo un raro formaggio di mucca in un’isola di pecore, ma un cacio a pasta filata che si può cagliare solo di notte e lo possono fare solo le donne. Come il pane. Così vado a pagina 27 della parte del libro con le ricette, vado al “pane frattàu”. Il brodo di pecora o di capra non ce l’ho. Io sono di città. E sono continentale. Così mi accontento del manzo, che lo so non è uguale, ma impregna ugualmente il pane carasau acquistato già pronto, fatto da qualche piccolo forno industriale. Non dalle donne, non di notte. Forse dalle operaie nel turno di notte. Ma tutti i sapori portati altrove non sono che rappresentazione, teatro. Così metto in scena, in mezzo ai libri il mio pane frattau su un terrazzo affacciato sull’Adriatico: niente di meno sardo. Però comprendo il rito nel bagnare il pane nel brodo e a farne strati con sugo di pomodoro e pecorino, ovviamente sardo. Poi la magia: l’uovo in camicia. E quando mai lo si cucina più? Con quel goccio d’aceto nell’acqua e l’attenzione perché non si rompa. Via, sopra il pane con sugo e formaggio. E poi ancora cacio potente, a gustare questo simulacro di Sardegna, a sorprendersi di un’isola che resta semisconosciuta dopo tanti viaggi, sempre lontana come la prima volta. In altro un bicchiere di Cannonau di Sardegna, fatto con le uve Grenache, le più sensuali del Mediterraneo. “Storia di un’antica tradizione isolana” recita il sottotitolo di Il pane carasau. Ma è invece la storia di un’isola intera e della sua cultura attraverso il pane: “su pani fattu in domu”, il pane di casa. Che imparo chiamarsi carasau dal verbo “carasare” che indica l’ultima fase della sua preparazione, la tostatura: carasau significa, indurito, tostato. Gli uomini di questo libro hanno il pane nel cuore, ne traggono sostentamento, nostalgia nella lontananza. È cosa da uomini avere con sé il pane, come il coltello. In ogni pagina si scopre un boccone di Sardegna, se ne avverte il profumo, il silenzio, lo sguardo che attende dal monte la nave fenicia attraccare. È da leggere, un libro che fa guardare così lontano.
Foto | Fabio Mazza
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