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I sonetti di Giuseppe Gioachino Belli

I sonetti di Giuseppe Gioachino Belli I sonetti di Giuseppe Gioachino Belli
I sonetti di Giuseppe Gioachino Belli

Dal momento che a tutti, a torto o a ragione, piace dare i numeri (spesso in senso letterale) anche io oggi voglio iniziare la nostra chiacchierata dando dei numeri che mi sembrano davvero eloquenti: la produzione poetica in dialetto del poeta ottocentesco Giuseppe Gioachino Belli, pensate, ammonta in totale a 2.279 componimenti per circa 32mila versi, cioè circa il doppio di quelli della Divina Commedia. Tanto per avere un’idea di quello di cui parliamo… e scusate se mi faccio influenzare dalla materia, ma, come diremmo oggi a Roma, s’è allargato ‘na ‘nticchia…

Romano e romanesco

Che poi come gli è venuto in mente, al Belli dico, di scrivere in dialetto? Pare sia stato durante uno dei suoi viaggi, quando a Milano venne in contatto con le opere di Carlo Porta, considerato ancora oggi il più grande poeta in dialetto milanese (allora sotto la dominazione austriaca) che all’epoca era già morto perché di una generazione precedente. Questa, però, per il Belli, fu solo la scintilla, perché lui fece molto di più che adottare il proprio dialetto nella scrittura e lo fece anche con un significato diverso da quello di Porta.

Innanzitutto a Roma si distingueva tra romano e romanesco, conferendo al primo aggettivo tutto ciò che era inerente sì alla città di Roma, ma alla Roma nobile, signorile, elevata; tutto il resto, invece, da attribuire al popolo, era il romanesco. Un po’ la differenza che c’è oggi tra romanesco letterario e romanaccio parlato, anche se da un punto di vista filosofico sono identici nell’obiettivo, differiscono solo per l’epoca. Inoltre, se per Porta scrivere in dialetto significava in un certo qual modo anche esprimere una propria identità nazionale contro l’invasore, per il Belli non sarà mai così, perciò il suo dialetto si spinge più che altro verso la ricerca della distinzione, all’interno della lingua parlata, tra la vulgata (per dirla alla Dante) e il vero e proprio turpiloquio che allora abbondava particolarmente nelle comunicazioni popolari.

Benvenuto Verismo

Ed eccola la grande novità e il potere della poesia del Belli: i temi trattati, la quotidianità che diventa poesia.

Accade contemporaneamente anche nella prosa, dove si fa strada il Verismo alla Giovanni Verga, ma mentre in prosa si può infilare qualche parola in dialetto qua e là, nella poesia il risultato è sublime perché si può giocare addirittura con l’intero verso se la maestria personale lo consente. Il sonetto, poi, è stata storicamente la forma che meglio si è adattata al verseggiare in dialetto e in cui meglio si sono manifestate tutte quelle meravigliose (e non) caratteristiche che il popolo romano incarna tuttora: il menefreghismo, l’essere tronfi che deriva dalla consapevolezza di essere nati e di vivere nel luogo più bello del mondo (appunto), ma anche l’arguzia, la capacità di sdrammatizzare su tutto morte compresa, e anche – perché no – direi la resilienza, ma forse quella è più l’evoluzione in positivo della rassegnazione che caratterizza noi romani contemporanei.

Verismo sì, quindi, ma non solo, altrimenti la poesia del Belli e quella dialettale tutta, sarebbero da considerarsi una sorta di poesia di serie B, invece sappiamo bene che così non è nella considerazione della grande letteratura. Se così non fosse, infatti, questa letteratura non potrebbe trattate temi universali e allora come avrebbe fatto a essere tradotta in moltissime lingue straniere, esperanto compreso? Il Belli per primo, infatti, credette che il romanesco potesse assurgere al livello di vera e propria lingua, perciò si dedicò a sistematizzarla, dandole dignità d’intenti, assieme alle regole grammaticali, facendo uscire dalle sue viscere una certa intrinseca musicalità e nobiltà d’animo anche perché, come direbbe lui, le apparenze contano, anzi, conta Er decoro… 

Pussibbile che ttu cche ssei romana
Nun abbi da capí sta gran sentenza,
Che ppe vvive in ner monno a la cristiana
Bisoggna lasscià ssarva l’apparenza!

Difficile dirlo meglio. Alla prossima!

Foto | Dipietroff / CC BY-SA

L'autore: Roberta Barbi
Roberta Barbi Roberta Barbi è nata e vive a Roma da 40 anni; da qualche anno in meno assieme al marito Paolo e ai figli, ancora piccoli, Irene e Stefano. Laureata in comunicazione e giornalista professionista appassionata di cucina, fotografia e viaggi, si è ritrovata da un po’ a lavorare per i media vaticani: attualmente è autrice e conduttrice de “I Cellanti”, un programma di approfondimento sul mondo del carcere in onda su Radio Vaticana Italia. Nel tempo libero (pochissimo) si diletta a scrivere racconti e si dedica alla lettura, al canto e al cake design; sempre più raramente allo shopping, ormai rigorosamente on line.

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