Proveniva da «un grosso villaggio, tanto pittoresco quanto disgraziato», come Grazia Deledda stessa descriveva la città di Nuoro, in quella Sardegna allora ancora pressoché sconosciuta in ambito letterario o comunque «nel continente».
E il suo essere isolana la influenzerà e in qualche modo condizionerà per tutta la sua vita: innanzitutto dal punto di vista di linguistico e non perché, avendo terminato la scuola alle elementari ed esprimendosi normalmente in dialetto non riuscisse a scrivere in italiano, me perché scelse di comunicare concetti e valori che risultano ancora oggi intraducibili, di rendere atmosfere altrimenti incomprensibili e di non smarrire tra le parole auliche dell’italiano la vivacità della tradizione orale a cui sovente attingeva.
Poi, anche dal punto di vista dell’ambientazione di romanzi e novelle che le valsero l’antipatia di molti concittadini che la accusavano di dipingere una Sardegna troppo rude e arretrata, anche se – rovescio della medaglia – ebbero il pregio di far conoscere a tutta Italia non solo i pescatori siciliani, ma anche i pastori sardi: è per questo che la Deledda, molto apprezzata in vita da Giovanni Verga, verrà a lui molto spesso accostata come illustre esponente del Verismo.
Cominciò presto Grazia, quinta di sette figli in una famiglia benestante, a pubblicare poesie e componimenti vari sulla stampa locale, ma il salto lo fece con l’invio a Roma dei racconti Sangue sardo e Remigia Hedler, nonché con la pubblicazione a Milano della raccolta di novelle per l’infanzia Nell’azzurro.
Ma Grazia Deledda non voleva restare solo una scrittrice per bambini, né conformarsi a quella che era la letteratura femminile dell’epoca: lei aveva molte altre cose da dire.
La svolta arrivò nel 1903 con Elias Portolu, primo di una serie di romanzi a sfondo familiare come Cenere, L’edera, Sino al confine, Colombi e sparvieri, L’incendio nell’oliveto e Il Dio dei venti.
In tutti essi emerge uno dei temi più cari alla scrittrice: l’etica patriarcale, cioè le norme morali che formano gli affetti familiari. È qui che si supera il Verismo: accantonando le tematiche economiche e saltando a una sorta di realismo coscienziale in cui la vita umana è soltanto un luogo all’interno dell’ordine sociale in cui l’uomo appare disorientato e spesso in balia di forze molto più grandi e potenti di lui.
Ma soprattutto, nel 1913, viene edito Canne al vento, considerato universalmente il suo capolavoro. Qui la Sardegna diventa una terra mitica, archetipo di tutte le terre e tra immagini bibliche dell’uomo e atmosfere marcatamente dostoevskiane, il romanzo può essere considerato una celebrazione del libero arbitrio.
Per arrivare fino qui, infatti, Grazia Deledda aveva studiato tanto, soprattutto i narratori russi: negli anni a cavallo tra i due secoli, alla ricerca del proprio stile, aveva divorato quella letteratura, partendo da Tolstoj a cui dedicò anche una raccolta di storie promuovendo contemporaneamente uno studio comparato tra i costumi russi e i costumi sardi, per approdare a Čechov, Gogol e Turgenev.
Nel 1927 vince il Premio Nobel, unica donna italiana (finora), con questa motivazione:
Per la sua potenza di scrittrice sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita qual è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.
L’Accademia di Svezia ci aveva visto lungo: aveva compreso la natura intimamente lirica e autobiografica delle sue aspirazioni (che la allontana dal Verismo), le rappresentazioni ambientali che erano più il frutto di una memoria assorta che un resoconto di fatti, e le vicende dei personaggi più sogni di vita che vite reali.
Tutta la sua opera, inoltre, ha come oggetto la crisi dell’esistenza ma anche la fiducia nel progresso storico, nella scienza e nella giustizia, che la fanno avvicinare non poco al Decadentismo, così come i suoi personaggi, che a volte sembrano vagare attoniti e perplessi in questo mondo.
Oltre all’arte del paesaggio, infatti, l’uomo riveste un ruolo fondamentale nella sua poetica, ma è considerato un essere miserevole: così, almeno lo vede l’io narrante, che in tutti i suoi romanzi è una sorta di arbitro onnisciente, osservatore neutrale di quello che accade e dei personaggi che recitano il proprio dramma nel cupo teatro della loro anima.
Morta improvvisamente nel 1936, Grazia Deledda ci lascia, infine, un’autobiografia incompiuta: Cosima, quasi Grazia, che uscirà postuma col solo titolo di Cosima.