I versi di Enrico Testa, poeta genovese il cui esordio nel 1988 con Le faticose attese venne accolto da Giorgio Caproni con parole di genuina ammirazione, si muovono lungo i sentieri sempre accidentati della memoria. Tra le soffitte ingombre del passato. Sotto i letti caldi e sfatti del ricordo.
Questi sono i luoghi dove il poeta di notte (l’oscurità è oblio, il nulla assenza) con una piccola, ma tenace lanterna in mano si aggira fino a dimenticarsi di sé. Di quell’io così invadente che rischia ogni volta di intralciargli il passo, di ingannargli la vista, di mettere a soqquadro tutti i suoi sensi.
A poco a poco le immagini (gesti, cose, persone e qui i registri linguistici di volta in volta mutano briosamente) affiorano come vene di luce. Guizzi da afferrare. Epifanie destinate a diventare bastioni. Baluardi contro l’efferato dilagare della notte. Del silenzio.
È allora che il ricordo, l’opera immensa e fragilissima della memoria, dà forse il meglio di sé. Piccole, grandi cattedrali si ergono coraggiose nel buio, fioriscono nel deserto, offrono asili (o magari anche solo minuscole oasi), salvandoci in extremis dal naufragio. Da quella perdita, mossa e variegata come un antico e insostituibile mosaico, che ci renderebbe mille volte orfani. Senza terra. Senza storia. Eternamente alla deriva come gusci vuoti. Bussole rotte. Relitti chiamati a inabissarsi in profondità da cui non potrà mai esserci un ritorno.
Per i nostri lettori, ecco allora un piccolo assaggio del vibratile talento di Enrico Testa. Versi tratti da Le faticose attese, raccolta ripubblicata da Graphe.it edizioni nella collana Le Mancuspie, diretta da Antonio Bux.
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Oh le infinite faticose attese […]
anche nei giorni passati ad aspettare
che il buio abbracci il sole.
***
quando
con una musichetta sospirosa
mi fai entrare
per la porticina buia del tuo “mai”
si scoprono
improvvisi
i campi di giacinti
dietro la foresta
– e dietro la sua testa
i lampi della rosa.
***
come imprigionarla
nella torre più alta
di questa terra di sterpi
e guardarla dal basso
dalla sassaia
senza paura delle sue serpi…
come scordarsi
del suo viso di metallo
e allontanare
col solo gesto dell’esclamazione
la sua parola muta,
la menzogna dell’esitazione,
lei che rifiuta
anche il nome…
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